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n. 2 / gennaio 2013

L’ESPRIT COSMOPOLITE. Voyage de formation des jeunes en Europe

di Vincenzo Cicchelli
Presses de SciencePo, Paris 2012

 

Sabino Di Chio
Assegnista di ricerca Dipartimento di Scienze Politiche
Università degli Studi di Bari Aldo Moro


L’Erasmus ha compiuto 25 anni in uno dei periodi meno incoraggianti della storia recente europea. Nel 2012 i morsi dell’austerità hanno offuscato una volta di più il progetto comunitario, svelando un apparato farraginoso e senza popolo, più somma di egoismi che crogiolo di unità. Il programma di mobilità studentesca, visibile fiore all’occhiello delle politiche di costruzione dell’identità europea, si è scontrato per la prima volta con il rischio bancarotta, spingendo politica e accademia ad interrogarsi sulla concreta rilevanza dello strumento: chi sono i due milioni e mezzo di ventenni che dal 1987 ad oggi hanno affrontato un soggiorno all’estero di almeno sei mesi, ritenendolo una tappa indispensabile prima del passaggio all’età adulta? Questo 10% degli studenti europei è un’élite o un’avanguardia? Un esercito di privilegiati in cerca di movida a distanza di sicurezza da casa o dei coraggiosi sperimentatori dei nuovi confini di un continente dove settori strategici dell’esistenza alloggiano sempre più in dimensioni inter e sovranazionali?

Entrambe le cose. E i due aspetti sono legati da un’intima connessione come emerge dalla viva voce di alcuni di loro, raccolta da Vincenzo Cicchelli, sociologo italiano trapiantato a Parigi (Université Descartes), esperto di formazione e jeunesse, che nel recente L’esprit cosmopolite. Voyage de formation des jeunes en Europe, ha analizzato 170 interviste effettuate in otto anni ad altrettanti studenti viaggiatori, tra francesi appena tornati da soggiorni all’estero ed europei di ogni angolo del continente arrivati a Parigi.

Secondo l’autore, ogni studente Erasmus è un laboratorio semovente di cosmopolitismo: sono i giovani che decidono di rispondere all’imperativo diffuso alla mobilità e all’internazionalizzazione degli orizzonti di vita, scegliendo di iscriversi per mezzo del viaggio ad una sorta di corso di specializzazione allo spirito del tempo. Obiettivo del corso: una nuova bildung intesa come “forte aspirazione a cerchie d’appartenenza allargate e ad un’estensione del sé per mezzo della moltiplicazione degli incontri con diversi gradi di alterità” (p. 43, traduzione nostra). Se Berger e Luckmann in “La realtà come costruzione sociale” (1966) individuavano due fasi della socializzazione (primaria, quella in cui il bambino scopre il mondo esterno attraverso la famiglia e gli affetti; secondaria, quella dell’inserimento da anonimo nei ruoli e nelle convenzioni sociali), facendo propria l’impostazione teorica di Beck, l’autore intravede nell’Erasmus un terzo inedito stadio, necessario per l’apprendimento dei codici comportamentali utili per orientarsi nelle culture transnazionali emergenti. Lo studente cosmopolita si forma in parallelo all’entità socio-politica che ospiterà la sua vita da adulto: un apprendimento per immersione che ha molto di corporeo e poco di accademico, consono ad una generazione cresciuta nel recinto smaterializzato dell’industria culturale e sospettosa nei confronti dei “i canali tradizionali di fabbricazione e circolazione dei sapere, come il turismo, la formazione scolastica e i media globali” (p. 84). Una disillusione che spinge a voler “decifrare il filtro del virtuale” per mezzo dell’esperienza diretta, tattile, emotiva, a lasciare le sicurezze di casa per entrare in un interstizio spazio-temporale, una cornice avventurosa dove le convenzioni saltano e ognuno è spinto a “provocare la vita” (p. 118). In palio, quindi, c’è l’edonismo del momento ma esso è indissolubilmente intrecciato alla voglia di imparare a “superarsi” (p. 117), a relativizzare la centralità delle proprie abitudini, a sviluppare capacità adattative al nuovo, con la consapevolezza che l’adattamento sarà non solo una competenza tra le più richieste nel collocamento professionale ma più in generale una virtù cui ispirare la condotta quotidiana.

Fin dal titolo, Cicchelli insiste sul concetto di esprit cosmopolite proprio perché si impegna nella ricognizione dell’atteggiamento valoriale dagli Erasmus, trovando nel concetto di “apertura” la virtù fondante della loro idea condivisa di “vita buona”. Cresciuti in un contesto segnato dall’aspro dibattito sugli esiti della coesistenza multiculturale, i ragazzi viaggiatori hanno piena coscienza di vivere un mondo plurale che nessun tipo di appartenenza può pensare di incapsulare: essi sanno di non possedere per nascita e formazione alcuna verità assoluta, di non avere strade preordinate né utopie da seguire, anzi. Il loro compito è riscrivere giorno per giorno storia e geografia portando in dote solo la propria presenza fisica come strumento per combattere omologazione e stereotipi. Come spiega l’autore, “questi giovani non sono alla ricerca di una società o di una città ideale, piuttosto di un quadro di vita ideale. Non si tratta di contribuire con la loro formazione a creare una società armoniosa ma di trovare il quadro che permetta a questa bildung di realizzarsi” (p. 100).

Il libro attraversa i racconti delle difficoltà nel far combaciare le alte aspettative di viaggio con la realtà quotidiana dell’indipendenza dal contesto familiare, la costruzione e la demolizione degli stereotipi sulla terra d’accoglienza, le dinamiche interne del gruppo degli studenti stranieri, che oscillano tra entusiastica accettazione del codice di complicità con la cultura ospitante (p. 114) e la coalizione nostalgica contro i locali, colpevoli di ostinata refrattarietà all’incontro. Le testimonianze sono incrociate in modo da far emergere la specificità del modo di conoscere degli Erasmus in cui “l’incontro con l’Altro si pensa come un ideale, si vive come una prova e si valuta come un apprendistato” (p. 251).

Un cauto ma costante ottimismo guida l’opera nell'indicare la categoria degli studenti viaggiatori come prototipo di identità ad appartenenza multipla, aduse al pluralismo e abili nel contemplare l’altro addirittura come elemento costitutivo di soggettività sempre più social e sempre meno monadi. Una valutazione definitiva sull’esito della socializzazione cosmopolita, però, dovrà attendere sviluppi di lungo periodo, affinché il tempo possa sciogliere l'ambiguità di fondo che gli Erasmus condividono con ogni altra "avanguardia intellettuale". Attualmente l’esito della loro bildung si innesta in un contesto in cui la dimensione cosmopolita è appannaggio esclusivo dei più forti: più che una patria essa si manifesta come leva spazio-temporale utile per rendersi sfuggenti all’accertamento e alla condivisione delle responsabilità, etiche, fiscali o giudiziarie che siano, tutte accomunate dall'essere intrappolate nei confini statali. Il lavoro, i diritti, la partecipazione democratica patiscono l’allargamento, nel quotidiano del territorio il cosmopolitismo si scontra con le difficoltà di convivenza culturale e religiosa, con le infinite diaspore e la sofferenza dei lavoratori migranti. I portatori di spirito cosmopolita hanno due strade di fronte a loro: o, farsi soldati del cosiddetto "1 %", mettendo al servizio del mercato professionalità addestrate all'enfasi per l'innovazione permanente e la flessibilità oppure consacrarsi al consolidamento di un’opinione pubblica transnazionale che sia finalmente in grado di democratizzare la cosmopoli, riducendo il cronico disallineamento tra popoli e centri di potere. Nella speranza che l'Erasmus formi sguardi prima che competenze, sensibilità prima che curriculum.

 

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