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n. 2 / gennaio 2013

Non luoghi a procedere

Alberto Abruzzese
Professore di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi
I.U.L.M., Milano

 

Punto Zero (Vanishing Point, 1971, regia di Richard C. Sarafian) racconta una storia a tesi in cui la persona singola, sottraendosi all'obbligo dei legami identitari imposti dalla società civile, trasgredisce l'ordine prestabilito dalle leggi chiamate a governare il rapporto tra mezzi (strumenti dell'agire) e scopi (valori) dell'essere umano. Rapporto che rimanda a quello tra dominio della tecnica e un individuo che trova la morte, fisica e spirituale, proprio nel progredire dei processi di modernizzazione e civilizzazione che, invece, gli promettono vita futura. La tesi è quella avanzata dall'ampio arco occidentale di teorie negative in cui si sostiene che la tecnica, sopravanzando la volontà di liberazione dell'essere umano dalla violenza della natura, si fa forma di nichilismo invece che di riscatto. Il film divenne di culto per avere costruito un eroe – peraltro tradizionalmente presente nelle mitologie hollywoodiane del western e del “cinema nero” – fondato sulla sua romantica rivolta contro i vincoli territoriali imposti dai mezzi di trasporto (matrice dei media). Dalle mappe geopolitiche del potere, dalla metropoli e infine dai sistemi di comunicazione di massa tecnologicamente “aumentati”.

fig.1 "Vanishing Point"

Il nucleo di questa vicenda “on the road” tratta la differenza tra destinazioni obbligate e libere deviazioni verso luoghi di un altrove individuale; luoghi di un destino altro da quello delle identità civili, domiciliari, censite. Tra dovere essere e liberazione dalla “corazza” del razionalismo strumentale, dai sistemi normativi (famiglia, lavoro, patria) del tempo moderno: traumatica rottura della reciproca dipendenza tra diritti e doveri instaurata dal contratto sociale.
La scena madre, matrice, è quella in cui il protagonista – si chiama Kowalsky – sta  decidendo su quale debba essere veramente lo scopo da dare al proprio andare da una costa all'altra dell'America. La “fine” del film, cioè là dove giunge a compimento la scelta erratica (eretica) del protagonista – dunque la completa rivelazione del  suo scopo – sarà tragica. La decisione di ribellarsi, che si impone al soggetto in virtù di un moto interiore contro il mondo, viene presa nel mentre sta trasferendo un mezzo di trasporto, una automobile. Il suo venire in scena, uscire dall'anonimato del proprio mestiere, della sua funzione, del suo lavoro, si rivela – e già questo è un bel doppio gioco della narrazione – in quel punto di incrocio tra strade “cardinali” che una visione ideologica dei luoghi definirebbe affrettatamente un “non luogo”.  Infatti quello del protagonista non è un abitare e neppure un muoversi da una abitazione all'altra: prigioniero del suo fine strumentale, ve se ne può liberare solo grazie alla tecnica (l'auto, le strade, le segnaletiche, ecc). Il veicolo di cui si serve – che guida e dal quale il suo corpo è a sua volta veicolato – risulta essere anche l'oggetto da trasportare ad altri da sé: quindi l'auto non è qui un mezzo realmente a disposizione del protagonista, ed anzi semmai è proprio lui, il protagonista, ad essere il mezzo necessario a fare in modo che l'auto raggiunga il luogo in cui potrà essere usata per il suo specifico scopo. Dunque, sino a prima della decisione, della rottura che darà finalmente luogo al personaggio della narrazione, l'auto che gli è stata affidata è paradossalmente un oggetto immobile in quanto, per il protagonista, vive nel vuoto di relazioni tra mezzi e fini.
Il non luogo a procedere diviene invece luogo a procedere. Kowalski – ex marine, ex corridore d'auto, ex poliziotto, ridotto a fare il trasportatore di mezzi di trasporto – ha scommesso con se stesso di coprire in 15 ore la distanza (quasi 2000 km in linea d'aria) tra Denver (Colorado) e San Francisco. Conta sulle prestazioni di una potente Dodge Challenger con il motore elaborato. Corre contro: un “contro” che territorialmente non è frontale (lo sarà solo alla fine, segnata da una bolla di fuoco purificatore), ma si esprime invece su una stessa linea di viaggio, in cui fuga e inseguimento si equivalgono. Corre dunque contro i poliziotti che, di confine in confine, lo inseguono nei tre Stati attraversati, uno dopo l'altro, da questo irriducibile hacker delle strade, votato a sfidare lo spazio e il tempo così come sono organizzati da potere amministrativo. Lo guida a distanza il disc-jockey di una piccola stazione radiofonica sperduta nel nulla, nero e cieco, corpo negato e tuttavia ubiquo, istintivamente partecipe della sfida contro l’ordine costituito dei “marcatempi” della Legge, dei “costruttori” di barriere, dei “controllori” del traffico, degli accessi, e delle vie d'uscita Lo guida la dimensione territoriale della radiofonia: una rete di radio locali (modalità di servizio e di soccorso che è diventata d’uso comune tra le odierne masse di automobilisti, per quanto – diversamente dal film e da analoghi film, non a caso divenuti tutti di culto – al fine opposto di facilitare una mobilità ordinata e rispettosa delle regole).
In Kowalski vivono tutti i miti anti-istituzionali e quindi più profondamente imperialisti degli americani. Bisogna ricordarsi a questo proposito George Gilder (La vita dopo la televisione : il Grande Fratello farà la fine dei dinosauri? Castelvecchi, 1995), che proprio su posizioni iper-statunitensi annunciò, in anticipo su molta della letteratura cibernetica, l’avvento delle reti digitali come sterminio di linguaggi analogici e rinascita dello spirito della frontiera e della sua potenza invasiva. Alla fine Kowalski muore. La società pesante degli apparati istituzionali e dei loro dispositivi di pace non consente una vita spinta al di là del territorio sociale pur sapendo magnificamente superare ogni ostacolo di quello fisico. Tentare questo sfondamento della realtà – della costruzione della realtà attraverso i linguaggi analogici della storia – significa entrare immediatamente in un regime di guerra.
Su ciò che il viaggiare sarebbe rapidamente diventato entrando nel Terzo Millennio, Punto Zero ha detto qualcosa in più di film celebri, mitici, quali Easy Rider (1969) di Dennis Hopper e Zabriskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni. Se non altro per la funzione centrale che vi ha svolto il rapporto uomo-macchina in una dimensione socio antropologica specificamente automobilistica (ricca di articolazioni sensoriali molteplici e diversificate tra la relativa inerzia del corpo, in gran parte esonerato, lasciato in situazione remota, e la molteplicità di strumenti e comandi che ne realizzano invece un massimo di possibilità motorie). La durata mitologica dell’automobile (da Marasso e i futuristi in poi) è profondamente legata al fatto di essere un veicolo che onora e serve la velocizzazione dell’esperienza ma anche la dimensione individuale e familiare, nuovo fattore di una mobilità del viaggiatore, finalmente disincagliata dalla linearità spazio-temporale e dall’obbligo collettivo delle strade ferrate. Un mezzo di trasporto che instaura la nuova forma di comunicazione consentita dal cinema, non a caso nato negli stessi anni a cavallo tra Ottocento e Novecento. La simbiosi automobilistica tra elementi organici e inorganici, umani e macchinici, è stata il luogo, l’ambiente, di un rapporto che, lungo tutta la sua storia e in particolare sul suo rovescio più prosaico, ordinario, consuetudinario, è divenuto esperienza psicosomatica condivisa da parte di un numero sempre più vasto di persone. L’auto ha portato avanti questo processo antropologico di incarnazione umana nelle macchine, mentre cinema, telefono, radio e televisione, seppure dotati di una resa relazionale clamorosamente più alta, stanno davvero realizzando questo stesso processo di ibridazione solo ora con i cellulari, grazie alla loro natura di estensori della nostra presenza situata, fisica e insieme meta-fisica .
Quentin Tarantino ha pensato a tutto questo citando la Dodge Challenger di Kowalski nel suo Gridhouse - A prova di morte (Death proof, 2007). La citazione gli è servita a saldare nello stesso film tre distinte origini, situazioni, sensazioni.

fig.2 "Grindhouse"

fig.2 "Grindhouse"

Il cinema di genere dedicato alla potenza emblematica del serial killer, specialista in territori della carne, figura in questi anni dominante sull’immaginario collettivo; un cinema caratterizzato dalla prevalenza di interni, collocati e distribuiti nella distanza e differenza tra ambienti urbani e ambienti rurali, tra rischio metropolitano e rischio delle case contadine, dei percorsi vacanzieri, dei villaggi turistici, delle fabbriche abbandonate. Il cinema on the road, un cinema (diversamente) classico, caratterizzato da esterni punteggiati di soste inabitabili, impossibili, ma che nella versione di Tarantino passa attraverso la rilettura al femminile di un film come Thelma e Louise (Ridley Scott, 1991). E così suggerisce che, alla natura sostanzialmente maschile, dispotica, profanatrice del viaggiatore maschio, sta  subentrando o comunque affiancandosi, integrandosi, fondendosi (molto parzialmente) – con sfumature radicalmente diverse e nuove chance di dominio – il corpo femminile (accade con varia accelerazione anche in alcuni sport, nel consumo di pornografia o di video game, nella guerra). Infine il cinema fantasy o horror che mette in scena auto dotate di una vita propria, desiderante, sovrana sulla volontà umana e che, a seconda dei casi, si fa amica o nemica, angelica o diabolica, collaboratrice o catastrofica. Indicazione non da poco su quanto il design tecnico e estetico di un’auto così come, più in generale, dei mezzi di trasporto possa costituire una così fitta trama di relazioni automatiche da diventare l’elemento davvero caratterizzante la qualità del viaggio e le decisioni del viaggiatore.

fig.4 "Thelma e Louise"

Del resto – al contrario di mangiare, bere, respirare, toccare, e persino vivere – il verbo viaggiare è radicalmente intransitivo; per funzionare, per avere senso ha bisogno di indicare il suo dove e perché. Al centro dell’azione che questo verbo enuncia non c’è il soggetto che viaggia quanto piuttosto l’azione in sé del viaggiare. Questa azione è tanto forte da dominare il suo attore. E dunque il viaggiare comporta un transito, una transitività in sé e per sé, un insieme vastissimo, incommensurabile di correlazioni diacroniche e sincroniche che riguardano non solo il motore, la resa e l’aspetto del mezzo di trasporto ma anche l’intera rete di fattori umani e non umani virtualmente convergenti su di esso. A tal punto che il viaggiare destina il soggetto ad essere oggetto, e questa repulsione del verbo viaggiare alle regole sintattiche dell’organizzazione sociale ci rivela che il viaggio è inevitabilmente un essere viaggiati, esser fatti noi stessi strada, percorso, territorio. Essere posseduti. Tarantino lo dimostra facendo di un’auto, modificata allo scopo dalla sua componente umana, l’interno senza speranza che fa da teatro al serial killer, lo rende il luogo di una implacabile resa dei conti: il viaggiare rende oggetto subordinato, servo, il proprio viaggiatore a tal punto da avere il desiderio-diritto di massacrarlo.

Ancora: Into The Wild di Sean Penn. In questo film di consumo si parla di un individuo che abbandona la civiltà dei consumi, eroicamente soggiacendo a quella tipica falsa coscienza che caratterizza i discorsi anticonsumisti dei consumatori o pacifisti dei portatori di guerra. Per il giovane protagonista del film, la ricerca della vera vita nella natura assoluta e incontaminata dell’Alaska – il sogno che traspare in ogni pubblicità turistica di stampo ecologico e ambientalista – si traduce con la morte, con l’ibernazione del suo corpo. Tanto desiderio di fuga e purificazione non può che lasciarsi alle spalle la carcassa di carne che gli ha fatto da supporto. Così l’impossibilità del viaggio – secondo la lussuosa immaginazione occidentale – torna alla partenza del viaggio romantico come è stato concepito ai suoi più alti livelli, torna alla bara in cui si era ritrovato Gordon Pym (Edgar A. Poe, Le avventure di Arthur Gordon Pym, 1837-1838) iniziando il proprio viaggio verso l’altrove, verso il più bianco nulla dell’orizzonte: un viaggio senza termine in un romanzo di Edgar Allan Poe che forse non casualmente restò incompiuto.


fig.5 "Batman e Robin" - foto di Ribes Sappa

Cerchiamo di raccogliere le fila. Il viaggio è una invenzione occidentale. Muoversi e migrare ha per altri luoghi del mondo significati che confermano le nostre origini ma al tempo stesso l’eccidio di vite per cui siamo quello che siamo. Chi non viaggia, muore (un ambiente umano e sociale sopravvive se contaminato, deperisce se costretto all’immunità) . Chi abita, godendo dunque dei diritti e dei doveri di una società civile, è tuttavia per ciò stesso costretto a viaggiare per via diretta o mediata – con i piedi, con i mezzi di trasporto, con il palato, con l’olfatto, con gli occhi ma sempre secondo rapporti sensoriali tra loro ibridati – non solo per ottenere le risorse necessarie al mantenimento del proprio sistema di appartenenza ma anche per avere conferma dei suoi diritti e doveri o di una loro possibile scissione. L’abitare si fonda sulla demarcazione di confini e questi si riconoscono grazie ad azioni, opere e immaginazioni di sconfinamento: questo è lo spirito intrusivo del cosmopolitismo e non soltanto del colonialismo.
Chi non abita, ovvero non gode dei diritti e dei doveri che si impongono all’abitare, viaggia invece per non morire e spesso, proprio per non morire, trova la morte o la prigione nell’abitare dell’altro. Questo accade ai derelitti del mondo che viaggiano verso le coste della speranza, le promesse del loisir occidentale, le sue tavole imbandite, i suoi outlet globali. A questi esseri umani, privati dei lussi della morale e delle garanzie universali dello spirito delle nazioni, accade spesso di scomparire  nel mare – distanze, differenza, vuoti – che speravano di oltrepassare alla ricerca della propria salvezza. Il viaggio migratorio è la realtà dei popoli dannati, votati alla disperazione e insieme al sogno, dall’oggettivo progredire dei processi di globalizzazione economica e simbolica. È il destino di chi si spegne per fame. C’è dunque una parte di mondo fatto di terra e carne che viene divorata giorno per giorno dal vasto mondo extra-terrestre dell’immaginario, una miriade di viaggi dotati di senso grazie alla loro magnifica e ossessiva finzione. Grazie alla loro capacità di sedurre e convertire. Appunto, alla loro capacita di invadere e divorare: da veri e propri marziani della terra.

fig. 6 "Treno in corsa" - foto di Ribes Sappa

Viaggiare: nel transito da un luogo all’altro si riassume l’intera vicenda umana. Viaggiare è pensiero, guerra, commercio, arte. Denaro. Felicità e infelicità. Salvezza e punizione. Scienza e eterno ritorno alla barbarie. Dagli umani raccoglitori, appena insorti dal buio della natura, alle ultime migrazioni che oggi sconvolgono il mondo occidentale e ne annunciano una delle possibili catastrofi, sempre si è trattato di campi di forza in cui diversamente si combinano esperienze tra loro difformi. Sempre nuove alchimie tra amicizia e inimicizia, distanza e vicinanza.
Del viaggio si è potuto parlare – e lo si è fatto anche in questa sede – cogliendolo nella sua dimensione mitica (archetipi della conoscenza e delle forme di dominio sull’altro) o religiosa (patrie profane e celesti, esodi e terre promesse), rinascimentale (tecnologia e nuove mappe del mondo delle merci) e moderna (dalle guerre di religione alla violenza civilizzatrice, alle imprese economiche mondiali, al turismo romantico, alla pittura di paesaggio per interni borghesi). Forse, per capire cosa possa legare tante dimensioni del viaggiare – così tante da sommergere e vanificare l’idea che si tratti solo di dislocazioni fisiche – bisognerebbe fare perno sugli artifici con cui gli aborigeni viaggiavano ascoltando se stessi e, ascoltando se stessi, sapevano viaggiare e cioè sapere essere là dove si aprono varchi invisibili, si sentono orme dei sensi e risonanze ritrovate. Qualcosa che si rivela appunto nell’esperienza – sedentaria o meno – del cybernauta
Lo sviluppo tecnologico dei media – e più in generale delle tecnologie immateriali, biogenetiche e “nano” – sta annullando il tempo in vari modi. Assottiglia le distanze e differenze temporali nello spazio infinito dei corpi e dell’esperienza vissuta. Si tratta di un processo che, stando alla periodizzazione occidentale in cui siamo ancora calati, ha avuto inizio con la mondanizzazione di ciò che prima era visto come sacro, con l’abbandono del tempo ciclico delle culture orali, con la potenza delle religioni e dei regni che hanno dato inizio alla linearità della storia, accelerando il tempo a misura dell’organizzazione dell’abitare, dei suoi modi di produzione e consumo, dei suoi ritmi di vita, dei suo bacini di memoria.

fig. 7 "Accesso all'altrove" - foto di Ribes Sappa

Si tratta di un processo che – dopo le grandi manipolazioni tecniche del tempo e dello spazio messe in opera dalla fotografia, dal cinema e dalla radio – vive il suo compiersi nello snodo tardo-moderno della televisione generalista, là dove il mondo come spazio si fa insieme locale (la dimora), nazionale (l’immaginario di una nazione e dei suoi dialetti), mondiale (l’immaginario dei mercati multinazionali). E laddove il tempo si fa individuale e insieme collettivo, intimo e insieme pubblico. È questo il culmine di una società dello spettacolo che – germinando dalle sue radici esperienziali, affondate nei territori sempre più informi della metropoli – si è trasmutata nella contemporaneità atomizzata e insieme compatta della tele-visione. Sino a infrangersi nei mille e mille canali delle reti. Un territorio fatto di infinite increspature e insieme di vecchie e nuove isole, vecchi e nuovi ponti. I viaggiatori che non rinuncino ai loro vecchi bagagli e attrezzi di viaggio sono destinati a morire di volontà di potenza  e insieme di disperazione.

 

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