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n. 2 / gennaio 2013

Oggetti al museo. Viaggiatori senza valigia

 

Claudia Pecoraro
archeologa e ricercatrice in museologia

 

Anche chi crede di non aver mai viaggiato è un viaggiatore. Il primo viaggio lo abbiamo compiuto tutti dal grembo materno alla luce del sole. Poi, il viaggio per eccellenza, il nostro passaggio di viandanti sulla Terra. Viaggia la polvere, viaggia il vento, viaggia l’acqua sorgente – cantavano i C.S.I. E viaggiano anche gli oggetti. Come veri e propri migranti, hanno viaggiato gli oggetti esposti nei musei. Donati, venduti, acquisiti, commercializzati per vie più o meno lecite, essi hanno avuto in comune un destino simile. La partenza forzata dal luogo di origine, lo sradicamento, il viaggio. L’approdo finale in un luogo altro, de-contestualizzante e de-contestualizzato. L’allestimento in una vetrina o in una “scenografia”, che ne modifica per sempre l’immagine e l’immaginario.
A questi viaggiatori muti non è consentito di portare una valigia, quel bagaglio fatto di memorie culturali, di appartenenze, di affettività e vissuti, che abbandonano definitivamente nella terra patria.
Una volta a destinazione, agli oggetti si richiede di “significare” e di raccontare storie che sono sempre decise dalla cultura di arrivo e non di partenza. E se è vero che allestire vuol dire interpretare, dai casi più eclatanti e noti come i marmi del Partenone al British Museum fino alle migliaia di “oggetti migranti” dei musei etnografici di tutto il mondo, lo spostamento del patrimonio culturale costituisce un esempio significativo di gioco (in?)consapevole tra immagine e potere.

La storia del collezionismo è stata sempre, del resto, storia di oggetti sradicati, a partire dalle sue origini più lontane, dai bottini di guerra che gli antichi Romani portavano orgogliosi in mostra nell’Urbe, alle politiche di esproprio, più o meno mascherato, o di acquisto di grandi dinastie di sovrani collezionisti del Seicento (1).

È tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento che i musei e le gallerie pubbliche si moltiplicano rapidamente: il British Museum (1753); il Museo Pio Clementino in Vaticano (1771); il Musée Napoleon (1801); la Glyptothek di Monaco (1830) sono solo alcuni esempi (2). Queste istituzioni bramano pezzi pregiati, la cui importanza dà prestigio allo Stato che li possiede.
Napoleone si tuffa a capofitto nelle collezioni italiane e confisca la maggior parte delle sculture su cui Winckelmann ha fondato la sua Storia dell’Arte. Le opere, esposte al Louvre, dimostrano che Parigi è ormai la nuova Atene e la nuova Roma.
Proprio dalla Grecia le antichità vengono sottratte con una facilità esagerata e il motivo è politico: l’Impero Ottomano che controlla il Paese non ha un potere tanto forte da limitarne il saccheggio. Piuttosto, il sultano non si sente di rifiutare nulla ai suoi protettori del momento, gli Inglesi in testa a tutti. E questi ultimi ne approfittano a piene mani, essendo l’Italia sostanzialmente a loro preclusa in quanto occupata per gran parte dai Francesi.
L’avidità inglese porta, dal 1801, allo smontaggio quasi sistematico dell’Acropoli di Atene. I templi vengono spogliati delle statue, dei rilievi, delle decorazioni, mutilati, abbattuti, sconvolti da decine di squadre di operai che lavorano in modo frenetico. Va detto che, nonostante queste spoliazioni e ruberie cominciassero a diventare sempre più frequenti, la riprovazione e lo sdegno erano pressoché unanimi.
Un vero caso internazionale è l’arrivo dei marmi del Partenone a Londra, accompagnati tra mille traversie dall’orgoglioso Lord Elgin, ambasciatore inglese per il governo turco con pochissimi scrupoli. Artisti, esperti, collezionisti corrono a visionarli ma molti non vi riconoscono la “sublime” arte di Fidia, né “la nobile semplicità e la silente grandezza” che Winckelmann individuava quale caratteristica essenziale dei capolavori greci: «Sono scadenti imitazioni romane!». Solo quando saranno riconosciute come frutto del genio di Fidia dall’archeologo romano Ennio Quirino Visconti, da Antonio Canova e Quatremère de Quincy, le sculture verranno acquistate dallo Stato britannico (dal “predone” Elgin, ormai coperto di debiti) e trasferite al British Museum. Anche Londra adesso può vantarsi di essere la nuova Atene. Da allora (1816) le sculture e i rilievi concepiti nel V secolo a.C. per appartenere in modo armonico e indissolubile ad uno dei massimi luoghi di devozione di tutta la Grecia, per parlare ai fedeli riuniti attorno al tempio durante le cerimonie sacre, raccontano le loro storie a migliaia di turisti, studiosi, semplici curiosi e scolaresche, che a loro modo compiono il loro pellegrinaggio pagano per vederli da vicino. Il fregio figurato che era parte integrante di un edificio complesso, organico, funzionale al culto, frutto di quella razionalità greca che faceva dialogare le strutture architettoniche con lo spazio naturale esterno, modulandone la luce e l’atmosfera, è oggi poggiato su un freddo basamento ad altezza d’uomo, in una stanza illuminata da un lucernario che diffonde la luce grigia delle giornate piovose londinesi. I frontoni, un tempo evocatori di valori etici, politici e religiosi per i fedeli, diventano oggetto di culto feticistico, meta di un grande afflusso di pubblico che getta a fatica uno sguardo incuriosito a monumenti e pannelli esplicativi, e fotografa ogni particolare per dire c’ero anch’io.

FIG 1. Il fregio del Partenone al British Museum di Londra (per gentile concessione di Klaus Bergheimer)

Il caso del Partenone è sicuramente il più celebre, ma l’emorragia delle antichità classiche è stata frenata solo parzialmente dall’indipendenza greca, mentre altri “monumentali” spostamenti sono stati eseguiti fino agli inizi del Novecento a seguito di accordi tra i governi. Le metope di Olimpia al Louvre, le statue dei frontoni di Egina alla Glyptothek di Monaco, l’altare di Pergamo e la porta del mercato di Mileto a Berlino, sono solo alcune delle più famose vestigia emigranti della storia dell’Occidente antico.

Certo è che queste movimentazioni, se da una parte hanno sottratto agli usi ed ai contesti originari manufatti di tutti i generi, dall’altra hanno avuto il merito di accendere la fantasia, la curiosità e l’immaginazione, stimolando l’attivazione di nuovi processi di conoscenza e mettendo in moto la cultura nel corso dei secoli.

Gli spostamenti di monumenti così maestosi strappati ai loro paesi originari, quali che siano state le loro ragioni storiche, suscitano forte impressione e sono destinati a creare grande clamore, ma lo stesso sradicamento lo subiscono tutti gli oggetti che affollano i musei di tutto il mondo, finanche la statuina votiva di terracotta portata dallo scavo archeologico all’antiquarium poco distante dal sito.
E per tutti gli oggetti, il viaggio verso il museo rappresenta una fase terminale della loro biografia, perdendo questi la loro originaria destinazione funzionale (3). Allo stesso tempo, tuttavia, essi subiscono ciò che, in termini antropologici, si definisce una “singolarizzazione”, sono cioè stati eletti rispetto alla massa di quelli che sono in uso, logorati, trascurati o distrutti, atto che rappresenta l’alternativa all’eliminazione sotto forma di frammenti ed altri detriti (4).
Tutti gli oggetti da museo sono quindi “condannati” alla vita eterna, realizzano quell’anti-destino che è l’allontanamento dalla morte e dall’oblio. Il loro nuovo status di “pezzo da museo” li fa morire per ricominciare una nuova vita, che è rinascita sotto un segno nuovo. E, soddisfacendo il bisogno naturale dell’uomo di autoconservazione, ci fanno sentire eterni.

Una volta ottenuto il «permesso di soggiorno» al museo, questi moving objects subiscono un processo di riscrittura, all’occorrenza possono addirittura cambiare nome (5). Che si tratti di un’opera d’arte o di artigianato, un reperto archeologico, armi, utensili o quant’altro, essi erano riconosciuti in quanto tali fino a quando si trovavano in un negozio, in strada, in casa… ma la loro vera natura cambia quando diventano oggetti da museo. Qui assumono subito una qualità nuova. Li valutiamo in modo diverso. Se prima eravamo liberi di decidere se considerarli o trascurali, apprezzarli o meno, una volta accolti nel museo, li giudichiamo non senza una certa soggezione, consapevoli del fatto che gli esperti hanno già detto “è bello”, “è importante”, “è autentico”(6).

L’approdo in una vetrina rappresenta per l’oggetto una cristallizzazione che il più delle volte annulla la sua complessa polisemanticità, la pluralità di significati, spesso peraltro contraddittori, di cui è portatore. Questa cristallizzazione raramente verrà rinegoziata e le implicazioni che ne conseguono generano spesso fraintendimenti e letture ambigue. Oggetti d’uso quotidiano esposti sul velluto rosso, un vaso greco da tavola in mostra accanto a un vaso funerario, uno strumento musicale che rimarrà muto per sempre, avranno perduto definitivamente la loro vera identità.
Per quanto un buon allestimento tenti di ricostruire i contesti originari, di evocare forme, suoni e rumori, di creare allusioni che rendano più comprensibile l’alterità degli oggetti, sarà sempre difficile colmare la distanza, fisica e non, tra l’oggetto e le persone che lo hanno costruito, lo hanno usato, toccato, manipolato, tra l’oggetto e i pensieri che lo accompagnavano, gli sguardi che vi si posavano, i significati che attivava.
Basti pensare alle collezioni numismatiche, esposte in file interminabili di monete suddivise meticolosamente per cronologia, materiali, valore ponderale etc. Esse hanno definitivamente perduto il loro valore di denaro, non passeranno più di mano in mano nelle botteghe né tantomeno verranno rubate dal ladruncolo al mercato, non ci racconteranno la fatica del gruzzoletto tesaurizzato sotto le assi del pavimento di casa né come si doveva sentire preso in giro il popolo che, nel periodo di massima crisi, veniva incoraggiato maldestramente dall’imperatore di turno che faceva coniare monete con le scritte Pax, Concordia, Fortuna, Felicitas

Lo slittamento di significati che un’esposizione determina può dar luogo ad equivoci importanti. Cadere in fallo è facile quando in mostra sono oggetti sacri, per di più appartenenti a culture lontane, nello spazio o nel tempo.
Nel 1983 una delegazione di nativi americani fece visita al Museo Pigorini di Roma e una vetrina in particolare attirò la loro attenzione, innescando una reazione di forte tensione conflittuale. Vi era esposta una pipa perfettamente assemblata nei suoi due elementi, fornello e cannello, operazione che trasformava l’oggetto in qualcosa di vivo e di potentissimo valore simbolico. Il calumet ricomposto rappresenta il cosmo nella sua totalità, diventa strumento di riconciliazione e pace nonché mezzo per entrare in contatto con il mondo soprannaturale. Fumarlo è la preghiera più sacra. Quella soluzione espositiva in un contesto così estraneo come una vetrina equivaleva pertanto ad un gesto terribilmente offensivo e sacrilego (7).
Allestire è, insomma, impresa delicatissima, soprattutto quando gli oggetti che hanno migrato fino al museo – ciò avviene nella maggior parte dei casi –  non recano con sé la loro carta d’identità. Per questo bisognerebbe sempre tener presente che dietro agli oggetti ci sono le persone che li hanno prodotti, usati, posseduti ed eventualmente spostati.

FIG 2. Fornelli di pipa in pietra rossa e cannelli in legno, dalle Grandi Pianure nord-americane, Dakota-Sioux, XIX secolo; dalla mostra “[S]oggetti migranti” al Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini di Roma. “© S-MNPE - L. Pigorini, Roma-EUR – su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali”. Foto a cura del Lab-Foto S-MNPE (M. Mineo F. Naccari).

In una recentissima mostra, proprio al Museo Pigorini, dal titolo significativo [S]oggetti migranti: dietro le cose le persone, un’intera sezione è stata allestita esponendo gli oggetti in casse di legno da trasporto per evocare l’esperienza della migrazione, che è appunto esperienza umana. Ed è rilevante che sia stata una rete di musei etnografici – il progetto nasce in collaborazione con i musei di Parigi, Bruxelles e Vienna – ad interrogarsi ed a ripensare oggi, tra le altre cose, lo status ed il senso di collezioni, costituitesi a seguito delle politiche di conquista del colonialismo europeo (8).
In concomitanza con le grandi esplorazioni, le prime raccolte etnografiche nacquero infatti per testimoniare i primi contatti che esploratori, missionari e commercianti avevano avuto con popoli lontani. Mostrare in patria quegli oggetti esotici e “primitivi”, oltre a strabiliare i salotti borghesi, rafforzava la tesi della divisione degli uomini in razze, più o meno evolute secondo il grado di tecnologia raggiunto. Le migliaia di oggetti che affollavano le vetrine finivano così per offrire, loro malgrado, una giustificazione anche alle pratiche più crudeli del nascente colonialismo, che nascondeva interessi commerciali, espansionistici e di dominio politico dietro ideali di civilizzazione ed evangelizzazione (9).

Continuando ad usare la potente metafora della migrazione, va peraltro tenuto da conto che gli oggetti da museo sono migranti d’eccezione: i viaggi che essi compiono nello spazio coincidono quasi in tutti i casi con viaggi nel tempo, da un passato più o meno remoto al presente. I materiali al museo non sono quindi solo “stranieri” perché provengono da altri paesi, territori, contesti, ma anche perché provengono da un’epoca diversa dalla attuale. E il passato è per eccellenza una terra straniera (10).
Essendo il museo, come è sempre stato e come è naturale che sia, specchio della società che lo esprime, raramente una mostra o un allestimento si pongono come riflessioni “neutre” sul passato, ma piuttosto come autentici interventi sulla realtà del presente. Ciò comporta che la proclamata autenticità oggettuale del museo subisca oscuramenti e distorsioni. L’operazione comincia già con la scelta del materiale da esporre e di quello da non esporre. Le collezioni etnografiche sopracitate ne sono appunto un esempio.

Ricostruire il passato, e quindi ricostruire la storia, attraverso la pratica espositiva implica a volte la creazione di una vera e propria “mitologia dell’oggetto”. E ciò è particolarmente evidente quando si tratta di memorabilia legati a un personaggio famoso (11).
Sintomatico è il racconto di Emilio D’Alessandro che, dopo esser stato assistente personale di Stanley Kubrick per trent’anni, visita a Roma l’imponente mostra itinerante (2007-2008) dedicata al grande regista dopo la sua morte: «Passeggiavo per i corridoi di marmo del Palazzo delle Esposizioni e mi veniva da ridere: vedere sotto vetro quegli oggetti che avevo spolverato ogni giorno, come fossero reperti storici, era surreale, quasi comico. Avevo cominciato a ridere fin dall’ingresso quando attaccata alla valigetta della sua Eyemo, la piccola cinepresa portatile, c’era un pezzo di corda ormai lisa: ce l’avevo annodata io quella corda, per trasportarla più facilmente, e ora era in una teca come una reliquia» (12). Evidentemente quegli oggetti, che D’Alessandro leggeva nella loro quotidiana e prosaica identità, una volta sotto vetro, avevano subìto un transfert di significato che li aveva investiti di un’aura di fascinazione, per trasformarli in oggetto di culto feticista da parte di un pubblico di fanatici ammiratori.

FIG 3. Kubrick durante le riprese di "2001 Odissea nello spazio" (1965-68)

FIG 4. La cinepresa personale di Kubrick, Eyemo 35 mm Bell e Howell, per le riprese di “Lolita” in mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma dal 6 ottobre 2007 - 6 gennaio 2008 (foto per gentile concessione di Ribes Sappa)


Se una teca di vetro è sufficiente per inchiodare sguardi attenti di centinaia di visitatori anche sugli oggetti più banali, per il solo fatto di essere appartenuti ad un “mito”, c’è chi, al contrario, ha ritenuto di valorizzare opere già imponenti dovendole “apparecchiare” con scenografie fantasmagoriche. È il caso di uno dei “viaggi” intercontinentali più eclatanti, avvenuto in tempi piuttosto recenti. Negli anni Sessanta, dopo la costruzione della diga di Assuan, il governo egiziano ha dovuto attuare una serie di interventi delicati per salvare dalle acque i monumenti egizi in Nubia, che altrimenti ne sarebbero stati sommersi. Molte delle campagne dell’UNESCO sono state finanziate da donazioni americane, sia private sia statali, su richiesta specifica del presidente John F. Kennedy. Nel 1965, l’Egitto, in segno di riconoscenza verso gli Stati Uniti, ha deciso di contraccambiare con un cadeau simbolico: il Tempio di Dendur (15 a.C. circa) che già si trovava bello che smontato e che – dicunt – piaceva tanto a Mrs. Jacqueline Kennedy!
Il tempio, assegnato al Metropolitan Museum di New York, dal 1978 fa bella (?) mostra di sé, interamente ricostruito in un ampio salone, parzialmente circondato da una vasca piena d'acqua e illuminato da una vetrata a tutta parete che si affaccia su Central Park. Tutti i tentativi sono stati realizzati per ricostruire il contesto di provenienza dell’edificio. Ma gli sforzi per “mettere a proprio agio” il nuovo ospite immigrato, ne hanno piuttosto restituito un immagine di profugo disorientato.
Una squadrata piattaforma moderna vuole essere metafora della lingua di terra dove il tempio si ergeva sulle rive al Nilo, mentre un ciuffo di papiri (fino a qualche anno fa, una pianta di plastica) dà l’illusione del soffio vitale della vegetazione della terra d’origine. Timidamente posizionato in un angolo, un coccodrillo di marmo è circondato dalle monetine lanciate dai turisti, sperando di tornare un giorno… chissà se a New York o in Egitto?!

FIG 5-6. Il Tempio di Dendur con il "coccodrilletto" al
Metropolitan Museum of Modern Art di New York

 

1) Lugli 2003, p. 43.

2) Etienne 1994, pp. 64 e sgg.

3) Lugli 2003p. 12:  «Non a caso per le avanguardie degli inizi del Novecento il museo rimane quello che è ancora oggi per il grande pubblico: lo spazio della negazione».

4) Poulot 2005, p.102.

5) La vetrina, ed ogni allestimento in generale, è un potente intermediario metaforico e il museo è, fin dalle sue origini, il luogo di una funzione simbolica dell’oggetto: v. Ruggieri Tricoli 2000, p. 31; Lugli 2003, p. 61.

6) Duncan 1971, pp. 53-59.

7) Le pipe sono visibili nella mostra [S]oggetti migranti (cfr. nota successiva) e il pannello esplicativo che le accompagna così conclude la narrazione dell’episodio: «La prospettiva amerindiana aveva fatto ingresso in museo e da allora il nostro sguardo ne ha tenuto conto e si è notevolmente arricchito».

8) Sul progetto europeo e sulla mostra (in corso fino ad aprile 2013): http://www.soggettimigranti.beniculturali.it

9) Durrans 1989, pp. 169-193; Edwards E., Gosden C., Phillips  R. 2006.

10) Lowenthal D. 1985.

11) Poulot 2005, p. 103.

12) D’Alessandro 2012, p. 338.

 

BIBLIOGRAFIA

D’Alessandro E. 2012, Stanley Kubrick e me, Il Saggiatore, Milano

Dudley S.H. 2012, Museum Objects. Experiencing the Properties of Things, Routledge, Londra & New York

Dudley S.H., Barnes A.J., Binnie J., Petrov J., Walklate J. 2012, Narrating Objects, Collecting Stories, Routledge, Londra & New York

Duncan F. C. 1971, Il museo: tempio o forum, in Il nuovo museo, 2005, a cura di Cecilia Ribaldi, Il Saggiatore, Milano, pp. 45-63

Durrans B. 1989, Il futuro dell’Altro: culture che cambiano nei musei etnografici, in L’industria del museo museo: nuovi contenuti, gestione, consumo di massa, a cura di Lumley R., Costa & Nolan, Genova, pp. 165-194

Edwards E., Gosden C., Phillips  R. 2006, Sensible Objects: Colonialism, Museums and Material Culture, Berg Publishers, Londra

Etienne R. e F. 1994, La Grecia Antica, archeologia di una scoperta, Electa/Gallimard, Parigi/Trieste

Gosden C. 2005, What Do ObjectsWant?, in Journal of Archaeological Method and Theory, Vol. 12, No. 3, pp. 193-211

Kopytoff J. 1986, The cultural biography of things: Commodization as process, in The Social Life of Things, a cura di A. Appadurai, Cambridge Univ. Press, Cambridge, pp. 64-94

Lowenthal D. 1985, The past is a foreign country, Cambridge Univ. Press, Cambridge

Lugli A. 2003, Museologia, Jaca Book, Milano

Pecci A.M. (a cura di) 2009, Patrimoni in migrazione. Accessibilità, partecipazione, mediazione nei musei, Angeli, Milano

Poulot D. 2005, Musée et muséologie, Parigi (ed. ital. Jaca Book 2008)

Pearce S. M. 1994, Object as meaning; or narrating the past, in Interpreting Objects and Collections, Londra & New York, pp. 19-29

Ruggieri Tricoli M.C. 2000, I fantasmi e le cose. La messa in scena della storia nella comunicazione museale, Lybra immagine, Milano

Smith A.H. 1916, Journal of Hellenic Studies, 36°, pp. 163-371

Walsh K. 1992, The representation of the past, Museums and heritage in the post-modern world, Routledge, Londra & New York.

 

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