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n. 2 / gennaio 2013

Nostalgia di un altrove. Itinerari per il recupero della “traiettorietà”

 

di Sabino Di Chio
Assegnista di ricerca Dipartimento di Scienze Politiche
Università degli Studi di Bari Aldo Moro

 

La strada è la grande assenza della contemporaneità. L’attuale forma di vita in Occidente appare mutilata della possibilità di concepire la distanza come attraversamento, con i suoi imprevisti, le incognite, gli sforzi. Lo scarto tra origine e meta è rimosso nell’eccitazione dell’istantaneità, quell’ideologia che organizza gli sforzi collettivi verso l’utopia dell’annullamento della percorrenza (sempre ed inequivocabilmente un tempo “morto”), quando raggiungere una destinazione non significherà più avere l’incomodo di solcare territori ma finalmente sarà un’attività scarnificata, priva dell’attrito della materia, dello sconveniente strusciarsi dei corpi e degli sguardi altrui, dipendente solo dalla forza di volontà e quindi dalla volontà dei più forti.

Viaggiare è oggi esperienza della vertigine nell’immateriale delle identità, delle immagini, dei dati. Non più dislocazione fisica ma, spiega Alberto Abruzzese aprendo il secondo numero di Iconocrazia, un artificio come quelli con cui “gli aborigeni viaggiavano ascoltando se stessi e, ascoltando se stessi, sapevano viaggiare e cioè sapere essere là dove si aprono varchi invisibili, si sentono orme dei sensi e risonanze ritrovate. Qualcosa che si rivela appunto nell’esperienza, sedentaria o meno, del cybernauta”. La sfida è lanciata: il soggetto tardo moderno dispone di tutte le opzioni per accedere allo straniamento anche da fermo, l’inconsueto è a portata di mano, la costruzione del varco invisibile è una scelta che pesa esclusivamente sulle sue spalle di creatore, senza che alcuna linea retta o tortuosa possa dare forma al suo cercare.

La strada sparisce insieme all’altrove geografico la cui distanza da colmare nella modernità faceva da format all’ansia di conoscenza. L’occidentale oggi si sposta più di quanto abbia mai fatto prima nella storia ma raramente riesce a sentirsi alieno, con sempre maggiore difficoltà la meta riesce a indurre un reale incanto. Questo perché l’Occidente viaggia silenzioso accanto a lui, una specie di pedinamento degno del miglior thriller. Con moto contrario a quello tellurico, i continenti si accorpano in una nuova Pangea al vetrocemento, le metropoli riproducono la stessa scenografia di neon e franchising, l’esplorazione si confina nei sentieri dei parchi a tema. Anche l’eccesso, il trip, il piacere sono addomesticati negli appositi villaggi recintati descritti da Sébastien Tutenges, dove tour operator smaliziati vendono la sospensione delle regole. La meta si reifica in prodotto, si ibrida con l’immagine lucida offerta al consumatore all’atto della scelta. Il turismo è industria, la seconda mondiale per fatturato, e l’industria non conosce imprevisti ma i vecchi cari imperativi a standardizzare, calcolare, programmare, ottenere profitto. A globalizzazione quasi compiuta si può affermare che l’occidentalizzazione del mondo prefigurata da molti osservatori (da Latouche a Ritzer) stia consistendo non tanto nello slancio emulativo e nello scolorimento delle differenze quanto nell’affiancamento ad esse di un generico campo di accettazione degli imperativi del profitto, seppure declinati differentemente da ogni territorio. Sul pianeta si intrecciano centinaia di mercati differenti, ognuno con le sue regole, le sue convenzioni, le sue monete e i suoi ruoli, ma è la forma mercato generalizzata, acuita nelle dimensioni turistico-metropolitane, a rendere tutto familiare per l’occidentale, da Pechino a Dubai, dall’Avana a Rio. La commercializzazione delle emozioni è il vero esperanto realizzato.

La globalizzazione è innanzitutto consapevolezza della finitezza delle pareti del mondo, sentimento di appartenenza comune ad un pianeta scoperto, concluso, compiuto e per questo ambiente unico che rende complice chiunque ci abiti. Il globo fotografato dai satelliti è un giocattolo vecchio, di quelle bambole logore e malandate, molto usate perché molto amate ma ad un tratto riposte in un angolo perché ogni racconto è stata già estratto, ogni immagine già sognata, ogni sorriso già procurato per lasciar spazio alla noia. La modernità nata sulle grandi esplorazioni non ha più nulla di vertiginoso, come la vastità oceanica che per secoli ha fatto da incentivo alla curiosità per gli angoli oscuri del pianeta (con tutti i limiti dello sguardo eurocentrico, paternalista e feroce, illustrato da Fabiana Dimpflmeier). Lo spazio è una costante, e la competizione si sposta sul tempo: il dove diventa funzione del quando, il quando funzione del quanto prima. La spinta famelica alla scoperta geografica vira nell’urgenza del “puro arrivo” (Virilio, L’orizzonte negativo). Il domani sconvolgerà i piani, nuovi concorrenti si affacceranno, fattori imprevedibili si manifesteranno, per questo ogni secondo è prezioso per la sopravvivenza, è un centimetro di trincea guadagnato in una guerra, sempre più guerra lampo. Queste istanze hanno composto l’humus che ha fertilizzato l’innovazione tecnologica, l’insaziabile domanda di risparmio di tempo ha trovato nella virtualizzazione digitale una risposta esaustiva. I motivi per viaggiare allora diminuiscono: archivi digitali di documenti, immagini e suoni, empori pantagruelici, videoconferenze e tutorial compongono un corredo di nozioni e servizi che nessuna generazione precedente ha mai posseduto sul proprio comodino. I social network permettono anche ai rapporti a distanza di non appassire, fornendo un registro intimo che permette la condivisione di quei mattoncini delle relazioni che sono le inezie del quotidiano. Se con l’omologazione l’ambiente d’origine perseguita il viaggiatore, con la virtualizzazione il mondo esterno piantona stabilmente l’intimità domestica del navigatore stanziale fino a cucirgli addosso il bozzolo che lo soffocherà.

Tra omologazione e virtualizzazione, il viaggiatore senza transito si nasconde oggi dietro la macchina fotografica agganciata al suo collo. Le fotografie sono le molecole di esperienza vissuta degne di trasfigurarsi nel simulacro d’altrove, istantanee capaci per definizione di tradurre il flusso continuo della vita, appunto, in istanti scambiabili, digeribili, immobili. Da una fotografia spesso nasce la scelta della meta, che sia l’immagine promozionale di un catalogo o lo showreel ben montato di un amico. La voglia di partire insorge allora come volontà di “entrare” in quelle foto, passare attraverso lo specchio e farsi parte del sogno istantaneo, dell’evento del click che, da solo, conferirà senso alla fatica dell’andata e del ritorno, lunga processione di sale d’attesa e centri commerciali condannata ben presto all’oblio. Le foto del turista sono testimonianza e prolungamento del momento ma soprattutto conferma a se stessi della verità di quanto accaduto. Ad essere vidimata è la differenza tra il momento immaginato e quello vissuto, prima che quel vissuto torni ad essere materiale per l’immaginario di qualcun altro.

A cosa serve un altrove? Principalmente a svolgere il ruolo di pietra di paragone che incalzi il ‘qui ed ora’ e lo costringa a togliersi la maschera saccente della necessità. Il potere si nutre di sedentarietà, ambisce a rifornire l’esistenza di scenografie fisse, disegnando processi e gerarchie come fossero dati di natura. Equilibri perfetti da non turbare pena la dannazione della perdita dell’ordine, l’alveo delle sicurezze nelle quali si barcamena la vita quotidiana. L’Iran raccontato da Valeria Pacilli è l’esempio di un potere terrorizzato dall’infiltrarsi dell’esterno: un individuo in viaggio nello spazio e nel tempo è un virus latente che rischia di svelare gli arbitri, un Neo che può imbattersi nella decodifica della Matrice e comunicare in quali altre epoche sono nate le pendenze  che fanno da trama al presente, in quali altre latitudini si è trovata una soluzione diversa, quali sacralità possono essere profanate, quali decisioni possono essere riallacciate al filo delle responsabilità. Il turista di Houellebecq evocato da Giuseppe Cascione, solo di fronte all’altrove riesce ad elaborare l’amarezza per l’inaridimento della sessualità occidentale, trasformata da dono prima in performance, poi in merce di scambio.
Soprattutto, la contemplazione della differenza apre la strada alla prefigurazione dell’alternativa, alla curiosità di intuire e raggiungere ciò che si nasconde nella strada a venire. Negli anni ’70, come dimostrano Frederic Monneyron e Mario De Tullio, la mitologia hippy sperimentava sulla strada la forma di nuove relazioni, il percorso “essenza della prova iniziatica” surclassava la destinazione ed era la misura delle aspirazioni ad un mondo più armonico che si sarebbe potuto raggiungere solo forzando i limiti fisici e psichici dell’esistente.
Ma se il tragitto è superfluo e la meta si confonde con il punto di partenza, tutte le distanze non solo quelle geografiche rischiano di farsi incolmabili in quanto già colmate e diventare burroni che recintino lo spazio delle possibilità. All’avvento della rappresentazione del mondo come un corpo unico, si accompagna la coscienza dell’interconnessione generalizzata, la riduzione del proprio posto nel mondo a nodo di una rete di relazioni immediatamente attivabili, all’occorrenza e a piacimento, indipendentemente dal contesto spazio-temporale in cui sono collocate. Fu Paul Virilio a denunciare ormai quasi vent’anni fa la scomparsa di una componente fondamentale del modo di conoscere umano, la trajectivité, “questo essere del movimento da qui a lì, da uno all’altro, senza il quale non avremmo mai accesso ad una comprensione profonda dei diversi regimi di percezione del mondo” (La vitesse de libération, p. 37). Il cammino fa da infrastruttura al pensiero, tra soggetto ed oggetto c’è un tragitto che dà valore alla meta, struttura l’apprensione del mondo in tappe, vivifica l’attesa dell’epifania del senso. Passeggiando tra le città visitate per lavoro, Salvatore Cingari cuce insieme i segnali di rivolta al buio dell’avvenire che rimbalza dalle due sponde del Mediterraneo sulle vestigia diroccate del welfare statale. Introducendosi nei villaggi per fotografare gli scolari tra Africa e Cuba, Gianni Princigalli ricostruisce da straniero la costante della meraviglia che lega l’infanzia di ogni parte del mondo.
Non c’è autorevolezza che possa legittimarsi senza trajectivité, perché non c’è esperienza che nell’immobilità trovi l’ossigeno per maturare. Non c’è esempio che si possa seguire perché “seguire” diventa un’attività priva di senso senza una strada da percorrere, non c’è eternità a cui si possa puntare quindi non c’è storia da ascoltare o ammirare nelle teche di un museo dove l’oggetto in mostra, spiega Claudia Pecoraro, è migrante tra le epoche e testimone dei domini. Nel mondo privo di altrove il potere si fa destino, l’individuo è impotente di fronte ad una condizione immodificabile che può solo accettare, scegliendo tra addestramento o disadattamento, cinismo o depressione. E’ così, ad esempio, che la disuguaglianza diventa un dato di fondo dell’esistenza, accettato senza che alcuno riesca a formulare non tanto una sollevazione quanto almeno una censura etica. Il cuore del modello è l’incolmabilità del divario che separa le élite dal resto, la fine della messa a tema del gap, del lavorio collettivo per stilare mappe di ricongiungimento. Il divario è assunto come elemento istituzionale, avvertito nelle coscienze come un fossato fisico. E’ così che l’identità etnica si fa scudo per non capirsi, per restare incapaci di attraversarsi e superarsi anche se si condivide una condizione, un destino, una strada, magari la via Padova raccontata da Christian Elia.

Partire verso l’altrove geografico, gettando anima e corpo nei solchi di un sentiero è diventata quindi un’attività di resistenza. Come l’artigianato, la convivialità, la lettura di un libro e le esibizioni artistiche dal vivo, viaggiare su strada fa parte di quelle esperienze umane troppo umane che sole sopportano la sfida dell’irreplicabilità, un rifugio dove tornare in contatto con il sudore e il respiro, sottoporre a prova di sforzo i pregiudizi ereditati dall’assimilazione dell’informazione scremata dall’esperienza, sovrapponendo ad essi lo sguardo sul reale. E cogliere nei difetti di questa sovrapposizione la propria liminalità, farsi assalire finalmente dai dubbi. Come il lettore può facilmente comprendere scorrendo l’indice qui a fianco, i contributi del secondo numero di Iconocrazia indagano il tema del rapporto tra potere e immagine del viaggio attraverso chiavi epistemologiche e stilistiche del tutto differenti. Tutti i saggi, però, rivelano in controluce un comune denominatore: suggeriscono al lettore possibili itinerari per il recupero della “traiettorietà”, scovando la dimensione perduta nelle forme interstiziali in cui ancora si nasconde nel mondo che sogna la fine dell’altrove.

 

 

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