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n. 1 / 1 luglio 2012

Francesco Zambon (a cura di). La visione

Medusa, Milano 2012

Adelaide D'Auria
Scuola di Dottorato in Scienze Umane
Università degli Studi di Bari Aldo Moro

 

Nell'immaginario comune la tradizione della mistica e i racconti dei suoi prodotti, cioè le visioni, appartengono alla cultura religiosa occidentale, più specificamente al periodo medievale. Ne “La visione” invece (AA. VV., Medusa, 2012, collana Viridarium, n.8), l'obiettivo è ben diverso e molto ambizioso: l'attività della visione, lungi dall'essere esperienza tipica dell'Occidente e della cristianità nel suo complesso, ha investito e per certi versi investe tuttora, tutte le tradizioni religiose, monoteiste e politeiste, seppure con le dovute specificità. Dall'Islam, all'ebraismo, dalla tradizione cattolica a quella Hindu (1), tutte hanno in comune l'uso delle pratiche mistiche ed estatiche, che producono visioni che hanno la funzione non solo di determinare un'approssimazione alla divinità, o ad averne un'immagine nitida, ma anche, e come scopo ultimo e più alto, compenetrarsi con essa.

La lettura dell'opera porta ad avventurarsi in un complesso cammino, fatto di riscoperte di autori troppo spesso trascurati e di personalità religiose particolarmente carismatiche che, nei rispettivi contesti storico-culturali, hanno contribuito a dare una direzione specifica ai culti e alle pratiche di riferimento.
Anche in questo caso ricorre il tema della visione mistica attraverso l' “occhio mentale” o “occhio interiore”, che altrove è stato oggetto di analisi specifica (Niccoli, Laterza, 2011)(2), e che parte dall'assunto per cui nella pratica religiosa esiste la capacità che va oltre il sensibile, di percepire il divino in varie forme, fino a poterlo contemplare, seppure in forma diversa rispetto al classico meccanismo visivo.

La questione tuttavia che percorre tutti i contributi e che resta al centro dell'analisi dando ad essa specificità, è il paradosso per cui, essendo la visione mistica un'esperienza che trascende la realtà, come può questa realtà ultraterrena essere rappresentata attraverso un'immagine? Ovvero «[...] se il suo scopo [della visione] è quello di raggiungere e di esperire in qualche modo ciò che sta oltre qualsiasi forma e qualsiasi rappresentazione, come è possibile “vederlo”, sia pure con uno sguardo interiore?»(3)
A questo primo e fondamentale interrogativo si aggiunge un paradosso: se l'oggetto della visione e il suo scopo ultimo è la contemplazione della divinità, del suo volto e della sua fisionomia, come si concilia tale necessità con l'assunto della inconoscibilità e della invisibilità del divino?
A questi interrogativi si cerca di fornire una risposta, passando in rassegna le manifestazioni nelle culture più rappresentative, che hanno fatto e fanno della visione una pratica imprescindibile nel cammino di fede. Così nella tradizione islamica, nella quale l'invisibilità del volto di Dio è un dogma, la mistica si ritaglia uno spazio ben delineato, anche se spesso in contrapposizione alla dottrina tradizionale. In particolare la mistica sufi del XIII secolo, il cui maggiore esponente è stato Najm al-din Kubrà, fa della visione uno strumento di avvicinamento tra il creatore e la creatura, pur avvalendosi di entità intermedie rappresentabili per immagini, attraverso “organi sottili” (4), cuore e spirito, che ne permettono la percezione. In tal modo l'esercizio della “vis immaginativa” determina la visione del divino attraverso luci, fuochi, guide che si palesano sotto forma di “persone di luce”, o addirittura lettere e libri “celesti”.

Altrettanto complesso è il rapporto tra dottrina e mistica nella tradizione ebraica (5), nella quale il linguaggio proprio della mistica riesce a farsi strada nella Cabbalà nonostante la diffusione e radicamento delle dottrine razionaliste in ambito religioso. Tanto complessi tali linguaggi quanto antichi, e ricchi di sfumature. Qui l'esperienza estatica è esperienza personale, intima, suscettibile di essere vissuta in differenti gradazioni e intensità, seppure nella costanza della sua pratica: l'individualità rimane intatta perché la visione è cosa diversa dalla unio mistica. Qui l'oggetto della visione non è Dio, anche in questo caso inconoscibile e invisibile, quanto sé stessi sotto forma di alter ego, anche angelico, che svolge la funzione di mentore nel processo di avvicinamento al divino.

L'immagine, in definitiva, svolge la funzione di mediazione tra l'individuo e la divinità. Ma l'immagine per sua natura è anche l'ostacolo che si interpone tra Dio e l'uomo perché determina una distanza, impedisce l'unione non mediata con il divino. È l'immagine come “male necessario”, come strumento di educazione, di rappresentazione delle tappe del cammino dell'unione tra uomo e Dio (6).

Le differenti descrizioni dell'esperienza della visio nelle varie culture e tradizioni, sono la testimonianza della costanza di un tema che risulta trasversale e pregnante in tutte le grandi culture, cioè il rapporto tra individuo e divinità, sia esso immediato e personale, o mediato da immagini o simboli, che si ripropone in tutta la sua complessità, tratto che ne rappresenta la forza e la ricchezza di suggestioni.

 

NOTE

Alessandro Grossato, Gli elementi simbolici e iniziatici hindu nel “Libro rosso” di Carl Gustav Jung, pag. 199-208.

2  Ottavia Niccoli, Vedere con gli occhi del cuore. Alle origini del potere delle immagini, Laterza, Bari, 2011.

3  Franceso Zambon, curatore dell'opera, nell'introduzione al volume.

4  Carlo Saccone, La visione di fotismi colorati e di “testimoni dell'invisibile” nella mistica di Najm al-din Kubrà, caposcuola del sufismo orientale del XIII secolo, pag.13-52.

5  Moshe Idel, Il linguaggio dell'esperienza estatica nella mistica ebraica, pag.53-106

6  Pablo Garcìa Acosta, Come insegnare a non vedere Dio: visibilità e negazione dell'immagine nell'opera di Marguerite Porete († 1310), pag. 107-130. L'argomento è, tra le altre cose, oggetto degli altri saggi presente nel volume: Sergi Sancho, Visione e corpo nel XIII secolo, la donna albero di Marguerite d'Oingt, pag. 131-154; Anna Serra Zamora, “Mappa animae”. La visione dell'interiorità in san Giovanni della Croce, pag. 155-178; Amador Vega, L'irruzione dell'invisibilità nella pittura di Rotko,pag. 209

 

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