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n. 1 / luglio 2012

Geografia e generi della postmodernità

Claudia Attimonelli
Professore di Cinema Fotografia e Televisione
Università degli Studi di Bari Aldo Moro

 

Cosmopolis di David Cronenberg (2012)


"Show me something I don't know"… implora serio e languido Eric Packer, il protagonista del film di David Cronenberg Cosmopolis, tratto dal celebre romanzo omonimo del 2003 firmato da Don De Lillo. Robert Pattinson, pregno dell'aura da vampiro post-dandy per il ruolo rivestito nelle stagioni di Twilight, è per 24 ore Eric Packer, il manager ventottenne multimilionario colto nell'odissea metropolitana per le strade di una Manhattan apocalittica viaggiando a bordo della sua superaccessoriata limousine. Fuori ha luogo, nell'ordine, una manifestazione cruenta "contro il futuro", una visita presidenziale, il funerale di una celebrity del mondo musicale e il traffico tentacolare che blocca tutte le vie. In un completo Gucci per tutta la durata del film e con al polso una specie di orologio futuristico in ceramica e titanio di Chanel1, Packer non smette di seguire il disastro finanziario che incombe sulla città ospitando sul retro della limo riunioni d'affari, sottoponendosi a visite mediche e lubrici amplessi con il solo obiettivo postmoderno di raggiungere il suo vecchio barbiere per un nuovo taglio di capelli.
"Mostrami qualcosa che non conosco", sembra essere la condizione nella quale si trova il soggetto delle narrazioni contemporanee, noi stessi che chiediamo al mondo là fuori di mostrarci qualcosa che ancora non conosciamo, un ricordo altrui, un atto-evento, un motivo che non è stato già ripescato dal passato: "Mostrami qualcosa che non conosco del futuro, del presente o del passato", si potrebbe così completare, perché, come sostiene il protagonista del film, "il futuro ha iniziato ad insistere".
Le due capitali europee del modernismo e della postmodernità, Londra e Parigi, nel corso del 2011/2012 hanno dedicato grandi retrospettive-introspettive alla creazione di due mitologie: Londra, al Victoria & Albert Museum si è cimentata nel tentativo di definire e mettere così un punto all'era della post-modernità con una grande expo dal titolo "Postmodernism. Style and subversion 1970-1990", e, a detta del V&A museum stesso si trattava di proporre "la prima retrospettiva al mondo onnicomprensiva sul post-modernismo". Di certo l'aver circoscritto il periodo all'interno di due decadi, come recita il sottotitolo, taglia fuori l'aurora crepuscolare e virale del postmodernismo coincidente con il tramonto del modernismo negli anni '20 e '30. Tuttavia lo sforzo titanico dell'excursus britannico offre uno sguardo sulla mitologia postmoderna (o pop-moderna?), dalla moda con, fra gli altri, l'abito-piramide di Cinzia Ruggeri dedicato a Lévi-Strauss, alla musica con David Byrne e i Talking Heads, Laurie Anderson e un vasto panorama dedicato alla New Wave; dall'architettura con numerosi documenti fotografici su Las Vegas (Robert Venturi), al design (Alessandro Mendini), al cinema con alcune visioni tratte da Blade Runner (Ridley Scott 1982) etc. La mise en scéne di una rassegna iconografica e sistematizzante del sapere elaborato dalla postmodernità, di per sé così resistente ad essere deportato ed esposto in un museo, sortiva un effetto straniante, a tratti compiacendo la voluttà estetica del collezionista di immagini e deludendo le aspettative di studiosi e pescatori di perle – per dirla con la Arendt quando si riferiva a Walter Benjamin – a causa dell'impossibilità ad essere esaustivi al cospetto di un soggetto ontologicamente votato all'estemporaneità.
Nello stesso periodo il Musée des Arts Décoratifs ospitava Jean Paul Goude per quella che è stata la prima retrospettiva sull'artista, fotografo di moda e della società, pubblicitario, illustratore, grafico, regista, manipolatore di immagini, francese. Qui si trattava di raccontare quella che Roland Barthes aveva definito nel 1957 fra le pagine delle Mythologies la francità, con il celebre esempio tratto dall'universo pubblicitario della Citroën Déesse: "La «Déesse» a tous les caractères d'un de ces objets descendus d'un autre univers, qui ont alimenté la néomanie du XVIIIe siècle et celle de notre science-fiction: la Déesse est d'abord un nouveau Nautilus" (1957). Infatti, circa trenta anni dopo, nel 1986 Goude licenziava uno spot divenuto celebre per la Citroën CX con protagonista Grace Jones che, in opposizione alla Déesse esclamava "C'est demon!".


In quattro mesi, numerosissimi sono stati i visitatori delle opere di Goude, un artista che il sociologo francese Edgar Morin, in apertura al catalogo della mostra, ha battezzato con il nome di Goudemalion, poi adoperato come titolo dell'intera expo.
Dice Morin: « Le Pygmalion légendaire était un roi de Chypre qui sculpta une statue à laquelle Aphrodite donna vie, puis épousa cette créature. Goudemalion, lui, sculpte une statue à partir de la femme qu'il épouse. Mais il n'en fait pas une statue de pierre, il en fait plus qu'une statue de chair douée d'âme, il en fait un être mythique où se transfigure la substance vivante, sans cesser d'être vivante, en créature de rêve et de légende. Ainsi Goude transforme et transfigure ses fantasmes, qui tournent autour du même trou noir de la Beauté féminine : il les transfigure en mythe » (2011).
Goude ha trasformato e trasfigurato i fantasmi della postmodernità rendendoli icone attraverso la pubblicità e inventando quella tecnica fotografica da lui denominata french correction, una manipolazione predigitale la quale, a differenza del consueto, viene resa ben visibile da un collage a vista, dove la correzione ancorchè essere occultata per dare l'idea di una perfetta coincidenza con la realtà, è esposta e diviene cifra estetica del risultato finale.

Attraverso la french correction emerge "sa volonté ironique de magnifier le corps à l'aide de toutes sortes de prothèses" (ivi). È così che Goude ha trasformato nei manifesti e nelle pubblicità televisive che hanno accompagnato gli anni Ottanta e Novanta francesi e europei (si ricordi a tal proposito lo spot per Chanel con Vanessa Paradis o quello in cui un coro di donne recitava a ritmo "Egoiste!") l'immaginario collettivo e individuale. Goude è stato inoltre regista e coreografo del défilé per il bicentenario della rivoluzione francese offrendo un taglio postcoloniale per raccontare la storia di miti e icone del suo paese. La sua autentica fascinazione per l'esotismo à la Breton, così come anche l'estetica ispano-americana queer, dandy e da playboy etc. – desideri brulicanti in quegli anni, tendenze non ancora emerse né affermatesi – ha innervato la forma da allora in poi impressa nell'immaginario incarnato della cospicua mitografia pubblicitaria di fine millennio.
Tra gli incantevoli documenti e le opere in mostra al Musée des Arts Décoratifs, nella sala principale si ergeva l'imponente statua basata sul calco di Grace Jones denominata Maternity Dress, già servita negli stessi mesi come manifesto dell'expo londinese sul postmodernismo.
Ad osservare con attenzione l'opera che doveva in entrambi i casi delle due mostre veicolare passaggi epocali attraverso la cultura delle immagini, si noterà che sul capo della scultura-installazione si trova un punto esclamativo, esattamente lì a mettere e a fare il punto su due grandi dispositivi produttori di mitologie: un movimento, il post modernismo, e un influente artista mitografo, il pubblicitario: Jean Paul Goude.
Si tratta di un'installazione post-dada con tanto di punto esclamativo sul volto nero di Grace Jones, l'altrove, l'esotico, ancor più, l'exotopico per antonomasia, es/posto a rappresentare la liquidazione di un meccanismo significante, se non proprio la chiusura di un tempo storico-sociale attraverso il paradosso della sua museificazione a sistema: il postmodernismo in una mostra itinerante.
Che il pensiero occidentale europeo, al principio del XXI secolo, a tratti senza neanche apparentemente accorgersene, intraprenda, nei confronti della modernità e della post-modernità, una visionaria critica della ragion pura ed eurocentrica occidentale basandola sulla visual culture – a suon di affiché, immagini detournate e stili vestimentari, è per lo meno un fatto degno di nota. Questa operazione avviene in diversi modi e invadendo più campi da almeno un decennio secondo modalità gradualmente omeopatizzate dal tessuto societale:
- adottando estetiche e volti fuori dall'ordinario nel campo dell'arte (Shepard Fairy, aka Obey e il marchio da lui realizzato di Obama durante la campagna presidenziale con tutti i successivi ed interessanti risvolti dal punto di vista legale in materia di diritti e citazione visuale);
- scegliendo temi come la mostra L'invention du sauvage al Quai de Brainly in corso nel 2012, dove ancora una volta si cercano strade alternative alla costruzione di uno sguardo coloniale ma che non parlano ancora bene il linguaggio dei nativi (Spivak 2004);
- promuovendo e muovendo la produzione e di recente anche la creazione di moda verso luoghi post-coloniali in seguito alla delocalizzazione delle industrie tessili avvenuta nel corso della fine del millennio in Cina, India, Taiwan, Est-Europa, Brasile…;
- introiettando la prospettiva dell'antieroe, del barbaro, del cyborg mutilato e tribale e dell'ex-nerd-sfigato nelle grandi narrazioni audiovisive (dai protagonisti dei serial televisivi come Dexter, House, Tony Soprano, al proliferare di creature dell'ombra come vampiri e zombie, psicopatici eroi come il protagonista del film Drive in bomber dorato per tutto il film, etc.).
A queste produzioni culturali occidentali, gli altrove (i là-bas secondo Barthes quando parlava del Giappone, o il cuore delle tenebre, come Conrad chiamava l'Africa, i barbari così reinventati da Abruzzese in Il crepuscolo dei barbari) non rispondono più esoticamente né programmaticamente come è accaduto nella maggior parte delle rappresentazioni iconiche del Novecento, bensì proliferano, avvengono anche indipendentemente, da quello che pensa l'individuo occidentale, grazie ad alcuni virus disseminati nel corso degli anni Ottanta e Novanta ad opera di alcuni dei protagonisti precedentemente citati e celebrati dalle istituzioni artistiche ufficiali (Victoria&Albert Museum, Musée des Arts Décoratifs, fra gli altri).

Il passato che ci attende
La domanda originata dalla ripresa nietzscheiana "non ci sono fatti ma solo interpretazioni" che ricorre e che sta percorrendo da più parti il dibattito contemporaneo tra post-modernism/pop-philosohpy/new realism e new modernism, sembra essere sempre più bisognosa di risposte: Cosa resta? Cosa è ordinario oggi e cosa resta fuori dall'ordine delle cose?
In una conferenza tenuta a Parigi nel corso del 2012 Alberto Abruzzese, citando un pensiero di Michel Maffesoli, "ricordare il futuro", s'è chiesto qual sia il passato che ci attende?
"Ricordare il futuro" è un sintagma che evoca "una teoria dell'avvenire del passato e del passato dell'avvenire" che, in termini di immaginario, visioni, sentori sociali, torna di continuo a mostrare, sostiene Abruzzese, "il montare delle origini sulla scena del nuovo", ovvero del "Moderno", qualcosa che alla fine dei conti ha somma zero.
Ci tocca provare a ragionare sul tempo passato che ci attende. C'è del lavoro da fare, è un lavoro che non può limitarsi a porre oggetti sociali dalla parte delle interpretazioni e oggetti naturali in un mondo a sé. Resta ancora da chiarire cosa sia un'interpretazione e come in essa prendano corpo e carne viva i soggetti, le cose e le vite storico-sociali, misurandosi, cioè direttamente con l'ontologia di questi corpi, l'epistemologia e l'ermeneutica con le filosofie del linguaggio e quelle sociosemiotiche. Per tentare di dire cosa resta, qual sia il passato che ci attende e se ci può venire mostrato qualcosa che ancora non abbiamo conosciuto.

Dal nostro punto di vista esistono già dei segni e delle forme estetiche che sembrano restare, resistere allo sgretolamento delle identità fissate nel corso degli anni Ottanta dentro le categorie strette delle sottoculture (quelle elaborate da Hebdige nel suo celebre Subculture. A meaning of a style del 1981, il fondamento degli studi culturali dal punto di vista musicale e visuale), e poi riacciuffate per le creste sbiadite delle tribù degli anni Novanta grazie alla nozione dinamica di neo-tribù proposta da Michel Maffesoli (1995) e danzanti nelle valli disperse dei rave o negli edifici decadenti della techno-culture.

Segno e sintomo di questi amabili resti sono l'estetica dandy e quella punk.
Proviamo a vedere perché e in che modo:

Ad affacciarsi sulla soglia del 2000 sono delle silouhettes già rinvenibili nei video pubblicitari visibili on line a cura del giovane designer britannico di culto Gareth Pugh, il quale cita visivamente Marlene Dietrich sul finale. Nel video, precedute dall'emersione dal sottosuolo e dal magma incerto e disordinato di piani deleuziani del divenire molteplice, rinvengono sagome gotiche che prendono forma. Gareth Pugh adotta il video come nuovo linguaggio pubblicitario della moda – storicamente ancella della fotografia – per mostrare i suoi lavori: figure del declino eppure tuttavia ormai assorbite dalla retina societale.
Erano gli zombie dell'alba dei morti viventi negli anni Settanta e Ottanta, sono le figure ordinarie dell'oggi, allenate, ormai, a praticare la condizione traduttiva dell'essere, che è un movimento dall'essere ai molteplici divenire, che ritorna poi sempre all'essere per rifuggirvi nuovamente.

Sono gli stereotipi dinamici, le scene
Chiamiamo scena, dal greco skené: il momentaneo e dinamico agglutinamento e interessamento da parte di singoli individui, come sciami, intorno a un corpus di segni in movimento che si stratificano nel tempo e verso il quale convergono pratiche e linguaggi – sia che si tratti della scena underground dei bassifondi di una periferia urbana, sia che ci si riferisca a quella glamour dello Studio 54 di nyc. Concettualmente la scena funziona per spiegare le pieghe più sfuggenti del corpo societale, essendo coincidentemente oggetto e soggetto: il luogo – la skenè – e gli individui che di volta in volta lo plasmano (Attimonelli 2011).
Verso la fine degli anni Settanta, dandy e punk ricevettero una consacrazione sancita dall'unione oltraggiosa di vertigine e caduta del quale repertorio iconografico si sarebbero nutriti per le decadi a venire senza quasi dover muovere un dito per rinnovarsi il mondo della moda (si pensi alla pioniera Vivienne Westwood fino a J. P. Gaultier e alle ultime campagne dark-punk de luxe di Chanel), del lusso (e l'esempio dello sfruttamento da parte di Louis Vuitton della scena street art e graffiti art per marchiare di tag borse e bauli è divenuta ormai un classico), e, infine, del fetish secolarizzato grazie a Madonna (Human Nature e Erotica).
Queste due figure, il dandy e il punk, adoperando l'orizzonte del declino, il frame dell'estasi e dell'abisso, hanno mostrato, negli anni, la loro resistenza alla frammentazione, alla consumazione baudrillardiana e alla liquidazione benjaminiana a cui sono destinate le opere riproducibili all'infinito, quando ad un certo punto le evacuiamo.
Erano i transformers, i protocyborg, la folla anonima, la beautifyl people e i bricoleur del quotidiano vestiti dei loro colori accesi e dei loro neri scintillanti, animati dai loro stessi slogan enunciati sui muri, come i graffiti di Samo aka Basquiat a New York, lanciati in danze robotiche dai suoni elektro-distorti della disco-music di I feel love di Donna Summer (R.I.P.), percorsi a gran velocità da cocaina ed extasy, resi glam e cupi da maquillage come maschere atte a trasfigurare il dis-essere (Kristeva 1985)…
Così calcavano per primi le strade apocalittiche degli anni Ottanta e quelle annebbiate dal fumo degli attentati post-coloniali e dei lacrimogeni delle manifestazioni anni Novanta, divenendone i segni distintivi, i frammenti duri, l'aura-feticcio di un'era. Non è un caso che a partire dagli anni Duemila il teschio sia divenuto un segno comune, dagli anelli di Alex McQueen all'opera preziosissima di Damien Hirts incrostata di diamanti, passando per qualsiasi gadget ad obsolescenza pianificata che siano braccialetti estivi o le t-shirt di H&M e simili brand di largo consumo.


In sintesi, fra i sintomi dello stra-ordinario di 20 anni fa vi è quell'incedere marziale e instabile dei soggetti spettacolari – una sorta di passaggio auratico – perpetrato attraverso la pratica del défilé declinata su uno degli schermi societali: inizialmente, negli anni Settanta, vi era lo stage musicale dove si esibivano le prime icone del futuro, in seguito, allorchè la moda ha mostrato la sua pregnanza nel quotidiano, la passerella, in quanto retorica della posa e dell'esibizione in sé, è divenuta iconica, seguita dalla parade in strada con manifestazioni sempre più estetiche e spettacolari, dalla Love Parade al Gay Pride, fino all'esposizione iconografica sui muri dei social network come Facebook, Flickr, Instagram etc.
In questi luoghi troviamo sempre il dandy e il postpunk che si stagliano sui segni indecisi degli altri individui e sembrano avanzare nel disastro di rovine benjaminiano, questa volta con la testa rivolta al futuro e il corpo tratto ancora indietro verso il passato, capovolgendo l'immagine dell'Angelus Novus.


Nella dinamica tra ordinario e out of order, dandy e punk hanno permesso il movimento, perché reduci dal bagno nell'estasi dionisiaca dei Settanta e degli Ottanta e, nutriti dell'avanguardia post-dada-futurista del cyberpunk, hanno scelto l'iconografia dell'eccesso festivo e del dolore rituale (pensiamo alle pratiche del piercing e del tattoo, al nero vestimentario, al fuxsia nell'accessorio, all'oro, all'antico, al banale disseppellito per la festa).
Essi sono i produttori di senso che com/prendono, nel senso di tenere insieme, il passato, e ogni tanto ri/passano i ricordi più vivi della postmodernità e in/segnano, cioè lasciano i segni, nell'immaginario dell'oggi.
Ci spieghiamo così, ad esempio, il successo del personaggio femminile, protagonista della versione di Fincher del film tratto dalla trilogia Girl with the dragon tattoo, colei che dovrebbe essere l'alternativa, l'underground, la bandita, l'anomalo deleuziano, è, di fatto, invece ormai l'ordinario, ciò a cui siamo abituati.
La visione che abbiamo cercato di offrirvi, scorgerebbe, dunque l'ordinario trasfigurato, cristallizzato e insinuato, comodo e confortevole, nelle forme dello stra-ordinario, di ciò che è stato a lungo anomico e out of order. Il pastiche, il frammento, la scomposizione e la distopia che diviene maniera.
Di fatto oggi, al compimento della frammentazione radicale della postmodernità ci si trova alla fine, al cospetto di frammenti. Il frammento è "qualcosa di duro" (Fabbri), qualcosa di non più ulteriormente scomponibile perché se ancora scomposto ne verrebbe a perdere di intellegibilità, cosa alla quale, invece, anche l'estetica del frammento tiene, e cioè, la densità nello stato gassoso, la profondità della superficie. Il frammento è, oltretutto, come gli anelli di Dorian Grey nella scena finale, utili al riconoscimento dell'esteta avvizzito, come la lettera rubata di E. A. Poe rinvenuta con lo sguardo obliquo dell'ovvio, un segmento di un quadro più grande, l'ultimo elemento intellegibile, cioè un fatto da interpretare.
Di fronte a questi frammenti, l'ordinario è l'ultima cosa stessa, uno dei primi gradi del segno, a seconda dei linguaggi lo ritroviamo nei segni distintivi, nei tropi vestimentari, nei luoghi fenomenici dove avvengono "i fatti". L'ordinario si affermerebbe come negazione del manierismo della postmodernità e per noi l'ordinario è l'anomico, è il punk, è il dandy, estetiche radicali e ad alte implicazioni sociali per quanto riguarda il genere, la classe, le norme, il diritto.
In conclusione uno sguardo alla serie di fotografie di Robert Longo Men in the city del 1981, ( http://robertlongo.com/work/view/1118/5571 ), qui si vede, in particolare, (Untitled) Joe, un uomo in completo nero su sfondo bianco; non è un caso che l'opera parli di persone e spazio urbano, a tal proposito è utile ricordare la prima campagna di I-pod a suon di affiche per strada mutuati dalle celebri sagome di Longo, le quali, a loro volta, in un'operazione di subvertising mostravano al posto del volto un teschio.
Cosa fa Mister Untitled (Joe)? Cosa fanno gli altri? A cosa è dovuta questa convulsione, sta danzando o è lo sfondo di una scena del crimine ed è colpito a morte?
La convulsione estatica, dove l'euforia e il colpo al cuore coincidono, disegna il tempo dello sfondo sperando in una risposta sbalorditiva, la stessa richiesta dal protagonista Cosmopolis, "mostrami qualcosa che non conosco!"…

Legenda immagini:

n. 1: Berlin, Tacheles.
Link Cosmopolis
n. 2: Citroen Barthes / Goude
n. 3: Grace Jones
n. 4: Bjork
Link Egoiste.
Link Gareth Pugh
n. 5: Teschio Hirst
n. 6: Angelus Novus
link al sito di Longo

Filmografia

Blade Runner, Ridley Scott 1982
Cosmpolis, David Cronenberg, 2012
Drive, Nicolas Winding Refn, 2011.
Girl with the Dragon Tattoo, David Fincher, 2012.

Serial televisivi
Dexter
House
The Sopranos

Videoclip
Erotica, Madonna, 1992.
Human Nature, Madonna, 1995.
Joie de vivre, Gareth Pugh, 2010.

 

Bibliografia (i testi citati si riferiscono a quelli consultati dall'autrice):

- Abruzzese, A., Il crepuscolo dei barbari, Bevivino, Milano, 2011
- Attimonelli, C. Giannone, A., Underground Zone. Dandy Punk & Beautiful People, Caratterimobili, Bari, 2012.
- Barthes R., Mythologies, édition du Seuil, Paris, 1957.
- Baudrillard, J., La società dei consumi, Il Mulino, Bologna, 2010.
- Benjamin, W., L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1966.
- Conrad, J., Cuore di tenebra, 1899
- Deleuze, G., Guattari, F., Come farsi un corpo senz'organi, in Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, II, Castelvecchi, Roma, 1996.
- Hebdige, D., Subculture. The meaning of Style, 1979.
- Maffesoli, M., Il tempo delle tribù. Il declino dell'individualismo nelle società postmoderne, Guerini e Associati, 2004.
- Morin, E., Goudemalion, in Goude, J. P., Goudemalion, Paris, 2011.
- Poe, E. A., La lettera rubata, 1845
- Spivak, G. C., Critica della ragione postcoloniale, Meltemi, Roma, 2004.

 

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