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n. 1 / 1 luglio 2012

La repubblica delle Mercedes. Viaggio nell'immaginario postdemocratico albanese

Giuseppe Cascione
Professore di Filosofia Politica
Università degli Studi di Bari Aldo Moro


Quando chiesi ad un taxista albanese perché a Tirana tutti guidassero una Mercedes, ebbi una risposta inaspettata. Qualcuno aveva ipotizzato che fosse perché gli albanesi, succubi di questa loro fame di modernità, avevano sposato acriticamente il modello europeo/occidentale a tal punto da scegliere esclusivamente automobili tedesche. Per questo ponevo la domanda, per verificare quell’ipotesi. Il taxista, a digiuno di qualsiasi teoria critica di tipo sociologico o politico, mi rispose con un'altra domanda: “Ma le hai viste le strade?” Non potetti far altro che darmi mentalmente del cretino e tornare a rimuginare sugli affari miei. Certo, le strade di Tirana (correva l’anno 2004) non si può dire fossero lisce come tavoli da biliardo, costellate come erano da crateri, come fossero state appena bombardate. E dove non c’erano le buche, c’era il brecciolino. In seguito, durante il tragitto, il taxista specificò il suo pensiero, facendomi notare che gli ammortizzatori a balestra dei modelli più vecchi delle Mercedes erano capaci di resistere a qualsiasi buca e se non ce l’avessero fatta, avrebbero sempre potuto essere riparati senza bisogno di pezzi di ricambio. Concluse lapidario con un’ultima domanda: “Secondo te, quanto durerebbe una Fiat a Tirana?”.

Tirana – Traffico  in Rruga Dritan Hoxha dopo un acquazzone (2006)

La letteratura filosofico-politica albanese si arrovella per la sua quasi totalità intorno al problema dell’identità albanese. Sia dal punto di vista sociologico (identità del popolo albanese) sia da quello politico (identità dello stato albanese) gli studi sull’identità albanese rivestono grande importanza per i saggisti del paese delle aquile. Alcuni studiosi scomodano gli Illiri, misterioso popolo adriatico, per dotarsi di un pedigree storico; altri invocano la tradizionale estraneità all’influenza politica slava da una parte e ottomana dall’altra, per riempire un buco cronologico che va da Skanderbeg a Hoxha, resistenti come sono all’idea di essere stati per tutto quel tempo solo una lontana provincia dello sconfinato impero ottomano.
Sia che sia vero, sia che sia falso, il problema ormai è stabilire – ammesso che sia possibile – cosa sono gli albanesi oggi. E, per raggiungere lo scopo, si potrebbe ‘iconocraticamente’ produrre un repertorio di immagini rappresentative della complicata transizione albanese. Tenteremo di farlo.

 

Mix di culture
Il sincretismo religioso albanese è ben rappresentato da quella particolare versione dell’Islam che si chiama “Bektashi”, cui la maggioranza della popolazione albanese aderisce. Al di là delle vicende storiche – legate al reclutamento forzoso al braccio spirituale di questa religione, cioè i giannizzeri – la religione Bektashi è, probabilmente, anche un abito mentale. Non poteva che essere grata agli albanesi una religione in cui tutte le limitazioni islamiche non producono alcun precetto particolare: si può fumare, bere, andare a donne, senza le complicazioni che caratterizzano l’Islam, soprattutto quello sciita.

Ecco, la capacità di tener dentro dimensioni diverse, di accondiscendere – senza smarrirsi – a condotte anche diverse dalla propria è forse la cifra per interpretare, lungo una linea di sostanziale continuità, l’Albania della transizione. Gli albanesi si dimostrano sicuri di non avere mai i problemi gravissimi di convivenza tra gruppi di diverse religioni, culture, interessi geopolitici che hanno perseguitato il resto dei popoli balcanici. In piazza Skanderbeg convivono, del resto, la moschea, la chiesa cattolica (molto vicina è anche la nuova chiesa ortodossa) e gli edifici dello stato laico albanese senza alcuna particolare sofferenza, né estetica, né culturale

Tirana – La moschea e il monumento alleroe cristiano in Piazza Skanderbeg (2006)

Quando, all’alba, sentite approssimarsi la costa albanese, uscendo sul ponte del traghetto che va da Bari a Durrës, vedrete avvicinarsi sempre più la città. L’approccio dal mare vi da subito la sensazione di essere di fronte ad una realtà del tutto eterogenea. I palazzi, le chiese, le istallazioni portuali, si presentano come un patchwork che mischia e macina elementi i più diversi tra loro. Gli stili si ammonticchiano gli uni sugli altri senza alcuna prevalenza culturale o religiosa e senza alcuna prevalenza del nuovo sul vecchio.

Durrës – Scorcio cittadino entrando nel porto (2010)

La chiesa ortodossa si sovrappone ai colorati containers in un mosaico stranamente equilibrato e piacevole allo sguardo. Guardandolo, nessuno crederebbe mai che gli albanesi possano, in un futuro anche remoto, scannarsi per strada a causa delle differenti subculture di appartenenza. Ma, forse, si diceva così anche di Sarajevo…

 

Dall’adolescenza alla vecchiaia. La febbre di crescita dello sviluppo albanese
Anche l’elogio della lentezza sarebbe stato inutile in Albania: ci avremmo messo troppo tempo a farlo. Chiunque abbia preso un caffè in un qualsiasi bar di Tirana sa qual è il ritmo della vita quotidiana in quella che comunque è la capitale di uno stato. É impensabile che per bere un caffè a Tirana ci si impieghi meno di un paio d’ore. Se ha ragione Franco Cassano – come a me sembra – e la velocità è una delle cifre della raggiunta modernità di una cultura, vuol dire che l’Albania usciva dalla sua storia recente con un lunghissimo cammino da percorrere. Tuttavia, per chi l’abbia visitata periodicamente negli ultimi sette anni, come io ho fatto, l’impressione di una brusca accelerazione nei ritmi di vita albanesi è molto forte. Ogni volta che si torna è come se l’orologio della storia avanzasse secondo un ritmo molto più frenetico che altrove: un palazzo può sorgere in poche settimane a Tirana, una strada essere asfaltata in pochi giorni, un aeroporto terminato in meno di un anno.
In un visionario lavoro di Geminello Alvi si descrive la società americana degli anni successivi alla seconda guerra mondiale come una società adolescente che, acquisita la coscienza di essere oramai l’unica vera superpotenza imperiale globale, viene affetta da quelle febbri inspiegabili che tradizionalmente vengono ascritte ad una crescita troppo impetuosa per non causare sofferenza. Ma Alvi continua dicendo che l’esito di quella crisi fu l’improvvisa quanto precoce senescenza di quella società. Insomma gli USA passarono dall’adolescenza alla vecchiaia senza passare attraverso la maturità, che nella sua ricostruzione, era costituita dal capitalismo industriale maturo. L’Albania mi da la stessa impressione, quella di una società transitata in modo brusco, anzi violento, da una situazione pre moderna ad una post moderna, senza essere passata attraverso la modernità.
I ritmi, dunque, procedono in un continuo altalenare di rilassatezza e frenesia, un occhio alla tradizione clanistica ed uno a un futuro atomizzato ed individualistico. Di giorno le lente giornate di eterna discussione nei caffè e sui luoghi di lavoro, di notte un rimbalzare elettrico tra i locali dei block delle grandi città, Tirana in testa. Un’esistenza bipolare che sul lungo periodo appare problematica da mantenere entro i binari di un pur complicato equilibrio.

Bisognerà scegliere tra l’estetica patriottica del Museo di Storia Nazionale e il grattacielo dell’International Hotel; tra il Teatro dell’Opera e la Tid Tower. Ma si ha come la sensazione che il pur solido impianto societario degli orgogliosi epigoni dei giannizzeri nulla possa contro l’assalto della speculazione internazionale, dei diktat dei parametri europei e della narco-economia potente e onnipresente.

Tirana – Iconografia comunista e grattacieli in Piazza Skanderbeg (2009)

Operazione maquillage e colori postmoderni
E veniamo a lui, l’incontestato leader della sinistra albanese, l’uomo che più di ogni altro rappresenta un’Albania che tenta di trovare la difficile mediazione tra modernizzazione e identità culturale, di rendere meno traumatico il tumultuoso sviluppo post moderno. Quando era sindaco di Tirana, Edi Rama vinse, del tutto inaspettatamente, un prestigioso riconoscimento internazionale, il World Mayor del 2004, che premia il sindaco che più si è distinto – a livello mondiale – nella buona amministrazione della propria città. Perchè?

L’intuizione di Rama fu questa: dare colore ad una città che veniva da un’esperienza comunista che l’aveva ingrigita, resa anonima nei suoi singoli quartieri e nel suo complesso. Non che dal punto di vista estetico la città fosse priva di personalità. Nonostante la relativamente giovane età – è solo con la dichiarazione di città capitale nel 1920 che il piccolo borgo seicentesco comincia ad assumere una progressiva importanza nella vita albanese – essa risulta un po’ il compendio della storia geopolitica del paese, con i suoi quartieri in stile italiano, sovietico, cinese ed ora europeo, punteggiato qui e là da moschee e rinvii al periodo ottomano. Ma, nonostante questa varietà architettonica stratigrafica, il comunismo l’aveva resa uniforme e monocromatica. Qui nasce l’intuizione di Rama, cioè rispecchiare il brusco cambiamento di rotta della società albanese nell’estetica metropolitana di Tirana: dalla monocromia comunista, alla policromia democratica, dalla depressione del pensiero unico, all’euforia ottimista del libero mercato. E incoraggiò i cittadini a dipingere con colori e motivi vivaci le facciate dei palazzi. Così, senza alcun progetto.

Tirana – Tutti i colori di Rama in Rruga Muhamet Gjollesha (2006)

Il risultato, che pure a tratti è ambiguo, stridente e cacofonico, nel suo complesso rappresenta efficacemente la complessa personalità bipolare della città: improvvisi strani palazzi dipinti con l’intera tavolozza disponibile, immersi in un tessuto urbano composto dai condomini austeri della giovane borghesia nascente di Tirana.

Tirana – Palazzo del centro visto dalla Sky/Vodafone Tower (2008)

L’impressione, tuttavia, è che l’auspicato cambiamento che Rama intendeva mettere in moto, stenti a trovare strade armoniose lungo cui svilupparsi. A dispetto delle intenzioni di chi ha costruito le grandi piazze ed i grandi bulevardi a Tirana sembrano esistere solo scorciatoie, che ti portano lungo vicoli stretti e popolosi, ignoti agli stranieri ma che riescono a raggiungere più in fretta e con più profitto il risultato. Insomma, anche in questo caso si passa dalla plumbea dittatura, all’eterea postdemocrazia, senza essere passati attraverso una almeno liquida democrazia.
E c’è ancora la Tirana dove il degrado e l’abbandono – anche in pieno centro città – regnano sovrani, come ad esempio in alcuni scorci del maestoso lungofiume.

Tirana – Bulevardi Gjergj Fishta, Palazzo dell’Esposizione (2010)

Tutto cambia, niente cambia: l’iconografia
Ma non era cambiato tutto in Albania dopo il regime di Hoxha? L’Albania, facile dirlo, subisce in questo la stessa sorte degli altri paesi p.e.c.o. Il nuovo gruppo dirigente è zeppo di personalità riciclate dal vecchio regime: ex militari e grandi burocrati hanno fiutato l’aria per tempo e pensato al futuro. A cominciare dal primo ministro, Sali Berisha, padre padrone del nuovo corso albanese. Un vero leader post moderno, cioè molto spostato sulla comunicazione, che riempie i muri di grandi manifesti ed usa la rappresentazione del proprio corpo – soprattutto le mani – in modo sapiente ed efficace. Berisha si circonda di consulenti elettorali americani e non trascura di presentarsi al suo popolo con toni ora paternalistici, ora straordinariamente aggressivi.
Che ne è, quindi del vecchio regime? I suoi simboli sono in parte ancora lì dove erano, in parte – molto piccola – hanno subito la stessa sorte degli altri paesi ex comunisti, cioè sono stati abbattuti e talvolta riaffiorano tra le macerie come un casuale memento mori.

Durrës – Lungomare (2010)

Storia di una transizione che non finisce mai: la post politica non è forse anche questo?

 

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