Potere delle immagini / Immagini del potere

 

Home

Iconocrazia

n. 4 / gennaio 2014
Serial power. La politica impolitica delle serie tv

n.3 / luglio 2013
Annisettanta

n. 2 / gennaio 2013
Il viaggio e l'immagine dell'Altro

n. 1 / luglio 2012
Le speranze deluse del POST


n. 0 / gennaio 2012
Che cos’è l’iconocrazia

News

Redazione

Links

Commenti

Contatti

Note legali

 

 

n. 3 / luglio 2013

Pop anni settanta

 

Ivan Scarcelli
Professore aggregato di Scienza Politica
Università degli Studi di Bari Aldo Moro

 

Gli anni Settanta, dal punto di vista sociale e politico, sono un territorio vastissimo da esplorare; a seconda del punto di osservazione scelto, dunque, il panorama che si coglie rischia di mutare in maniera rilevante.

Non si mirerà qui perciò a dare una definizione o una descrizione unica ed esaustiva di quel periodo storico, ma si tenterà di mettere a fuoco uno scorcio significativo – non più di uno scorcio, visto che un'analisi particolareggiata esula dagli scopi di questo scritto – che può aiutare a comprendere qualche aspetto caratteristico e caratterizzante del decennio in questione e della sua particolare “socialità”.

Uno dei fenomeni tipici del periodo è rappresentato dai grandi raduni di masse giovanili in occasione di concerti rock, da noi definiti “raduni (o festival) pop”. Per inciso, va detto che all'epoca, in Italia, vi era una certa confusione fra i termini pop e rock, che venivano utilizzati come sinonimi, e anzi il termine “pop” veniva spesso utilizzato per indicare il lato “non conformista” della scena rock – fraintendendo quindi clamorosamente il significato che nel mondo anglosassone veniva dato al concetto di “pop” associato alla musica. Tale fraintendimento è rivelatore, in quanto segnala la conoscenza approssimativa che si aveva in Italia riguardo ai fenomeni di “controcultura” che provenivano dall'estero, anche dalla mitizzata America.

Intorno agli anni 1966-1968 in tutto l'Occidente, e in particolare in Paesi tendenzialmente conservatori come l'Italia (dominata all'epoca perlopiù da una legislazione e da un codice di valori legati a un mondo agrario destinato a perdere in pochi anni la propria “egemonia”), cresce la rivolta di un'intera generazione nei confronti di un sistema sociale e valoriale che appare improvvisamente arretrato: lo sviluppo rapido e irrefrenabile dell'industria, e dunque la creazione di nuove esigenze individuali e di nuovi consumi, sembrano mettere davanti agli occhi delle giovani generazioni dell'Occidente l'inadeguatezza della “vecchia” società e dei suoi “valori” rispetto alle promesse della nuova “società dei consumi”. L'apparato patriarcale, retaggio di un mondo borghese ma dalle radici contadine – apparato il cui disegno permane immutato nelle legislazioni e soprattutto nella vita quotidiana di alcuni Paesi – con le sue gerarchie, i suoi pregiudizi e la sua diffidenza non solo verso l'emancipazione di chicchessia, ma anche nei confronti del “consumo” come valore e della libera scelta come principio universale, viene vissuto dalle nuove generazioni con sempre maggiore sofferenza e insofferenza; e in genere è il principio di autorità, che serpeggia ancora nelle pieghe di società che pur si dicono democratiche (nelle famiglie, negli usi consolidati, ma anche in certe leggi), ad apparire ai giovani del 1966-68 (e, in Paesi come l'Italia, ai giovani di tutto il decennio successivo(1) una nota stonata.

Di solito è sbagliato attribuire una qualche soggettività alle generazioni, dato che queste ultime sono un'entità piuttosto vaga; tuttavia non si possono affatto comprendere gli anni Settanta, e in special modo il tema di cui qui si parla, senza far riferimento alla maniera in cui i giovani di allora si raffiguravano il loro ruolo – un ruolo coscientemente “generazionale”, dunque – e cercavano di imporre a una società refrattaria, diffidente e anzi programmaticamente ostile, la loro generazionale Weltanschauung.

La musica in quegli anni costituisce essenzialmente un mezzo per esprimere ciò che accomuna l'“internazionale della contestazione”, e anzi per mostrarne l'esistenza, che rappresenta, nell'intenzione di molti, il superamento virtuale delle barriere etniche e nazionali. I raduni pop, insomma, sono importanti per ciò che vogliono mostrare, rendere visibile, ancor più che per quel che “mettono in circolo” sotto il profilo strettamente musicale(2).

All'interno delle rassicuranti barriere di eventi come Woodstock – ma anche di eventi più piccoli ma non meno significativi – chi contesta i “valori” delle vecchie generazioni, dal punto di vista beat, hippie o anche da posizioni più “politiche” (nel senso più ortodosso del termine), cerca di mettere in pratica le parole d'ordine della contestazione, e di attuare quindi, nello spazio chiuso e delimitato (anche sotto il profilo temporale) del concerto, i princìpi che si vorrebbero rendere universali.

E così, in controtendenza rispetto alle paure diffuse di un'epoca caratterizzata dal “discorso pubblico” della cosiddetta “guerra fredda” (ma anche da atroci guerre “vere”, come quella del Vietnam), i giovani di diversa provenienza e nazionalità, novelli clerici vagantes del decennio chiamati a raccolta dai vari raduni pop, mettono in mostra e in pratica la fraternizzazione: la promiscuità di certe convention rock di allora, biasimata a più non posso dalla stampa mainstream, non è – o non può essere interpretata semplicemente come – un mero accidente rispetto al contesto. Infrangere le barriere di quella che veniva considerata la “rispettabilità borghese” era uno scopo nient'affatto secondario del tipico raduno pop.

“Noi non siamo come voi” era il messaggio che i giovani partecipanti ai raduni, come gruppo compatto – dunque come massa unanime – e non come singoli, rivolgevano provocatoriamente contro coloro che, dall'alto della loro “anzianità”, pretendevano di essere i loro controllori o censori. La presenza, l'esserci come massa, era un atto politico: la politicizzazione dei desideri e dei bisogni soggettivi, e in sostanza del “privato”, compare ancor prima della sua teorizzazione in forma compiuta da parte del pensiero femminista.

Anche “luoghi liberati” come le comuni, che si diffondono un po' ovunque nel corso degli anni Settanta, svolgono una funzione analoga; ma le comuni, a differenza dei raduni pop, si misurano con il tempo e col suo trascorrere: ovvero, almeno nelle intenzioni, non si propongono come esperienze effimere e affrontano le contraddizioni della vita quotidiana, facendosi portatrici di un instabile “negoziato permanente” tra privato (idiosincrasie, egoismi, dinamiche interpersonali, ecc.) e pubblico (istanze politiche e utopiche di comunione, condivisione “totale”, ecc.). Inoltre, proprio perché ancorate alla logorante sfida del quotidiano, le comuni non riescono a creare icone della “massa giovanile compatta e alternativa” paragonabili a quelle scaturite dall'epopea dei raduni pop(3).

In Paesi come l'Italia, il fenomeno del raduno pop arriva con qualche anno di ritardo rispetto agli Stati Uniti o alla Gran Bretagna e caratterizza in effetti almeno la prima metà degli anni Settanta: il festival pop più importante di quell'epoca, ovvero quello organizzato annualmente dalla rivista «Re Nudo» (che a partire dal 1974 si trasformerà nella “Festa del Proletariato Giovanile” del Parco Lambro di Milano), vede aumentare il pubblico dei partecipanti dalla prima edizione del 1971 sino all'edizione del 1975, e poi, nell'ultima drammatica edizione (1976), implode (come ricorda, col tono tra il serio e lo scanzonato che gli è tipico, Gianfranco Manfredi in “Un tranquillo festival pop di paura”(4), anticipando in realtà le contraddizioni e le difficoltà del “movimento”, che nel giro di un paio d'anni si faranno evidenti anche sotto il profilo più strettamente politico(5).

Difficilmente un giovane intorno ai diciott'anni, specialmente in Italia, e specialmente se viveva ancora coi genitori, poteva permettersi di mettersi in viaggio per assistere a “un concerto” (non importa di quale artista): andarsene di casa, senza il permesso dei genitori, e arrivare magari in autostop al sognato “raduno pop” del momento era in sé un gesto di liberazione dalla “gabbia” delle imposizioni familiari e patriarcali, che veniva talora persino raccontato e rivendicato con orgoglio in qualche lettera spedita a giornali di area come «Lotta continua»(6) o anche a riviste dedicate alla musica giovanile (ad es. «Ciao 2001»).

Le “stelle del pop” nostrane, prima che lo star system conquistasse definitivamente anche il rock, vivevano talora insieme ai loro quasi coetanei spettatori l'esperienza del “campeggio improvvisato” dei raduni pop, e quindi il palcoscenico sul quale si esibivano non era letteralmente un “piedistallo” grazie al quale innalzarsi sopra “la massa”; lo stesso viaggio per la penisola che i musicisti compivano per esibirsi di solito nei circuiti alternativi (gli stadi erano riservati a pochissimi big, perlopiù stranieri) era, se non proprio avventuroso, perlomeno fortunoso.

In qualche modo, almeno finché il raduno pop non si ridusse ad essere “solo” un concerto (declinando subito dopo), tanto i protagonisti dello spettacolo quanto gli spettatori condividevano gli stessi scopi, gli stessi valori e le stesse esperienze; sembrava essersi prodotta una vera e propria koiné che teneva insieme i musicisti e il pubblico, facendo sì che i musicisti potessero esprimere liberamente la loro voglia di sperimentare nuovi linguaggi davanti a un pubblico reattivo e partecipe (gruppi tendenzialmente “di avanguardia” come gli Area erano a loro agio in tali situazioni) e che, al tempo stesso, il pubblico imparasse a distinguere le raffinatezze del progressive rock (erroneamente chiamato pop, allora) dalla musica imperante nelle hit parade o nelle “Canzonissima” o anche dall'ingenuo rock “ballabile” e fondamentalmente easy del decennio precedente.

Si trattava di una vera e propria koiné, oltre che di un'alleanza implicita fra musicisti e spettatori, anche perché cementava un mondo che pretendeva di essere “a parte”. I ruoli non erano rigidi e gli apparenti spettatori erano una presenza protagonista dello spettacolo, dal momento che il raduno pop era uno “spettacolo globale”, o un happening permanente, nel quale la distinzione fra palco e platea era evanescente; infatti avveniva anche, di contro, che gli spettatori fossero sollecitati a salire sul palco – o pretendessero di farlo – perché si pensava, in un ambiente nel quale si praticava la liberazione da ogni condizionamento e da ogni gabbia, che fosse utile far cadere anche la residua barriera fra “esperti” (della musica, nella fattispecie) e “non addetti ai lavori”. Tali esperimenti – che in effetti, e non per caso, non furono moltissimi – rivelarono però anche i limiti dell'utopia della “liberazione totale”, in quanto i “non addetti ai lavori” non potevano colmare nei pochi minuti a loro disposizione il gap (fatto di sensibilità ma anche di pluriennale preparazione e maestria tecnica) che li separava dagli “esperti”.

Il raduno pop, come occasione di contestazione e dichiarazione di distanza esplicita e visibile dal “mondo borghese”, cede il posto al “concerto rock” quando costituire spazi liberati non basta più, se la liberazione non può diventare letterale anche nel mondo quotidiano e sul lungo periodo, e quando il mondo del consumo sembra finalmente celebrare la propria vittoria, venendo a proporre una nuova pacificazione sociale (che smobilita i reduci sfiniti delle ultime stagioni di contestazione); questi due elementi convivono e convergono con l'affermarsi dell'idea di professionalità: i concerti vanno organizzati da “specialisti di eventi” e devono rendere in termini economici (non c'è più posto per l'improvvisazione e l'estemporaneità freak, insomma), inoltre il “professionista della musica” va curato come un qualsiasi prodotto, e alla sua fama e al suo gradimento deve corrispondere una quotazione, che può lievitare a piacere. Non essendo più il riverbero necessario di una coscienza al tempo stesso politica e generazionale, il musicista “da grandi concerti” ora è “soltanto” un divo, abilitato in virtù del proprio successo a pretendere compensi favolosi, e se ogni generazione trova adesso bell'e pronto il suo “personale” divo, è anche vero che non c'è alcun senso politico in questo continuo mutamento di miti, si tratta solo di buon marketing.

Emerge con chiarezza, alla metà degli anni Settanta, la capacità del “sistema dei consumi” di assorbire e metabolizzare la novità della contestazione epocal-generazionale, come sintetizzerà in quegli anni efficacemente Frank Zappa(7): i giovani, e specialmente gli adolescenti, che fino agli anni Cinquanta erano considerati “piantagrane” da tenere ai margini della società in attesa che si “normalizzassero”, si sono trasformati in ottimi consumatori, proprio a causa della libertà di scelta che hanno rivendicato; nasce così un mercato di prodotti specificamente pensati per le loro esigenze – e, a parere di Zappa (e non solo), nasce anche il controllo su loro, che si manifesta proprio grazie ai nuovi bisogni (compresa la dipendenza dalle droghe, secondo il musicista italoamericano) attraverso i quali il sistema dei consumi cattura ed elabora sapientemente i loro desideri e orientamenti.

In sostanza, la parabola dei raduni rock rispecchia quella della liberazione rivendicata negli anni Settanta: lo spazio sottratto alle regole comuni “borghesi” e “produttivistiche” non può far traboccare tutto ciò che contiene, cedendolo all'esterno, e rimane un fortino assediato; e siccome la vita non può svolgersi tutta dentro l'eccezionalità e l'eccezione (ovvero: la situazione d'eccezione – che, a differenza di quella schmittiana, è gioiosa e vivificante – ha forza e coagula in sé energie solo finché non pretende di disfarsi del proprio limite costitutivo), la regola comune si riappropria del fortino pian piano abbandonato, utilizzando di quest'ultimo ciò che può tornarle comodo per rafforzarsi dopo la sfida subita. In altre parole, della “liberazione” a più facce e dimensioni pretesa negli anni successivi al 1968, si è generalizzata e consolidata quasi soltanto la parte riconducibile alla “libertà di scelta” del cittadino-consumatore.

(1) Il “lungo '68 italiano”, specialmente nelle sue premesse teorico-politiche, è stato di recente analizzato nel volume di A. Ventrone, “Vogliamo tutto”. Perché due generazioni hanno creduto nella rivoluzione, 1960-1988, Editori Laterza, Roma-Bari 2012: viene ad esempio messo giustamente in luce il “punto d'intersezione” tra le rivendicazioni politiche di matrice “operaista” e «l'atmosfera del periodo che enfatizzava quanto mai i diritti e le libertà del singolo» (cfr. pp. 42-43). In effetti, «Il desiderio di una vita piena – qui e immediatamente – era uno dei punti che metteva in contatto le frange più politicizzate e quelle meno politicizzate della galassia giovanile. Se Jim Morrison, il mitico leader dei Doors, nel 1967 cantava in When the music's over: “Vogliamo il mondo e lo vogliamo, adesso. Vogliamo il mondo e lo vogliamo, adesso. Adesso? Adesso!” […], poco dopo questa stessa parola d'ordine sarebbe stata resa celebre dal romanzo di Nanni Balestrini Vogliamo tutto [...]» (Ivi, p. 43).

(2) Se è vero che, nell'ambito dei cosiddetti circuiti alternativi e della “controcultura”, politica e musica sono due percorsi che si affiancano e per un buon tratto viaggiano in parallelo, è altrettanto vero che per molti musicisti il contenuto e i sottintesi politici dei raduni pop e dei circoli underground costituiscono soltanto un humus favorevole al recepimento delle istanze di rinnovamento e di sperimentazione di nuovi linguaggi musicali: alle rivendicazioni politiche di quei momenti e luoghi di aggregazione essi – anche quando della politica non si disinteressano totalmente (come nel caso di F. Zappa) – guardano con disincanto. Frank Zappa è d'altronde tra i primi, sul finire degli anni Sessanta, a non prendere troppo sul serio l'improvvisa “politicizzazione” dei giovani beat e hippie alla quale assiste; per loro – egli dichiara, forse in maniera eccessivamente scettica – l'impegno politico è solo il must collettivo del momento, che verrà presto o tardi rimpiazzato da nuove “parole d'ordine” (cfr. N. Slaven, Zappa. Il Don Chisciotte elettrico, Tarab, Firenze 1997, p. 122). Dal canto suo, per fare un altro illustre esempio, Battiato, evocando retrospettivamente le sue ripetute partecipazioni ai raduni pop italiani e ai concerti “underground” degli anni Settanta, rivela che il “contorno” politico di quegli eventi gli interessava molto poco, anzi lo metteva a disagio: era l'attenzione riservata da quel pubblico (e solo da quel pubblico) ai “linguaggi di rottura” (la vera e propria “fame d'avanguardia” che lì si manifestava) a indurlo a frequentare quelle manifestazioni e quegli eventi (cfr. A. La Posta, Franco Battiato. Soprattutto il silenzio, Giunti, Firenze-Milano 2010, p. 37) .

(3) Un documento di estremo interesse per comprendere l'avvento della “controcultura giovanile” in Italia (compreso il fenomeno delle comuni – e in particolare si accenna all'“esperimento pilota” della comune agricola di Ovada –, ma anche dei campeggi autogestiti, ecc., senza trascurare veri e propri rudimenti su “controazioni” poco ortodosse, come trasmissioni radio non autorizzate, ecc.), è costituito dal volume ufficialmente anonimo (ma di fatto curato da G.E. Simonetti), e apparso semiclandestinamente per la prima volta nel 1971 (presso l'editore Arcana di Roma), Ma l'amor mio non muore. Origini documenti strategie della “cultura alternativa” e dell'“underground” in Italia, DeriveApprodi, Roma 2003.

(4) Tale canzone fa parte dell'album (LP) di G. Manfredi, Zombie di tutto il mondo unitevi, etichetta Ultima Spiaggia, 1977.

(5) La storia del festival organizzato da «Re Nudo» tra il 1971 e il '76 è ben illustrata nel volume di M. Guarnaccia, Re Nudo Pop & altri festival. Il sogno di Woodstock in Italia, 1968-1976, Vololibero Ed., Milano 2010, che parla diffusamente anche degli altri raduni pop italiani, nonché dei loro modelli originari anglosassoni.

(6) Utile per comprendere il significato politico delle lettere inviate dai lettori a «Lotta continua» (dato il quadro che nel loro insieme disegnano) è il saggio di Penelope Morris, “Cari compagni, sto male...”. Emozioni e politica nelle lettere a «Lotta continua», in P. Morris – F. Ricatti – M. Seymour (a cura di), Politica ed emozioni nella storia d'Italia dal 1848 ad oggi, Viella Ed., Roma 2012, pp. 211-240. Una rassegna ragionata di tali lettere è costituita dal volume di Aa.Vv., Care compagne, cari compagni. Lettere a Lotta Continua, Ed. Coop. Giornalisti Lotta Continua, Roma 1978.

(7) Si veda ad esempio N. Slaven, Zappa. Il Don Chisciotte elettrico, cit., pp. 229-230.

 

In questo numero