Potere delle immagini / Immagini del potere

 

Home

Iconocrazia

n. 4 / gennaio 2014
Serial power. La politica impolitica delle serie tv

n.3 / luglio 2013
Annisettanta

n. 2 / gennaio 2013
Il viaggio e l'immagine dell'Altro

n. 1 / luglio 2012
Le speranze deluse del POST


n. 0 / gennaio 2012
Che cos’è l’iconocrazia

News

Redazione

Links

Commenti

Contatti

Note legali

 

 

n. 4 / gennaio 2014

L'imprinting del reale.
Cronaca e politica nella recente serialità americana

 

 

Antonio Fabbri
Università degli Studi di Firenze

«Mi piace il mondo reale.È uno dei miei mondi preferiti»
(Eric Kaplan, sceneggiatore The Big Bang Theory)(1)


Fa difetto alla produzione televisiva italiana di stampo narrativo, la cosiddetta “fiction”, l’appiglio alla realtà recente. Se si celebrano santi ed eroi civili in telefilm di un paio di puntate, la serialità più lunga e articolata, quando offerta, sembra mancare di veri modelli di riferimento spendendo la narrazione in eventi avulsi dal contesto storico politico contemporaneo per descrivere quasi solamente isole felici di coerenza tautologica. Anche gli esempi più illustri, come Il commissario Montalbano, espungono dai testi originali di Camilleri ogni accenno alla situazione politica e fanno muovere i personaggi in una bolla sterilizzata di autocitazioni che sembra rigenerarsi ad ogni puntata, fermata nel tempo e nello spazio dalla rassicurante riconferma del già visto e noto. Automobili e oggetti non sembrano evolvere nel tempo, così come le psicologie e le personalità dei caratteri, determinate e riconoscibili sin dall’inizio, in un balletto di assonanze e consuetudini che pare bandire l’evoluzione e la progressione. Ne consegue che la continuità della riproposizione e della replica completa del ciclo ad ogni nuova aggiunta conferma, rassicurandola, la fedeltà del medesimo pubblico.

Ben diversa è la situazione della narrazione seriale americana, da decenni impegnata nella composizione di stagioni lunghe (di 22/24 episodi annuali) in cui l’impianto base, che genera la riconoscibilità di una formula, viene variato e spesso stravolto dal procedere del racconto che, nei decenni, si è fatto via via più incisivo e continuativo. Il riflesso della realtà nella sua immagine nello schermo viene spesso volutamente accentuato dai riferimenti cronologici suggeriti dalla messa in onda, con puntate in sintonia col calendario tali da permettere allo spettatore l’illusione di vita della finzione, di una progressione analoga parallela tra i due diversi mondi, con l’appuntamento settimanale in palinsesto che racconta eventi fittizi separati dal medesimo lasso di tempo. Le più moderne serie americane optano per una spiccata linearità drammaturgica, declinata nell’arco delle puntate di un’intera stagione, facendo prevalere l’orizzontalità di vicende tematicamente e cronologicamente coerenti, le quali sfruttano proprio la cadenza rituale dell’interruzione per rendersi più accattivanti e rilanciare l’appuntamento alla puntata successiva (il cosiddetto cliffhanger, che sospende il racconto lasciando calcolata incertezza sull’esito).

Una visione in tempo reale della progressione delle serie americane palesa spesso echi della cronaca o riferimenti a fatti avvenuti di recente, poi diligentemente riscritti per assoggettarsi ai temi e alle modalità espressive che incardinano ogni episodio di una serie in una coerenza estetica che prescinde dalle fonti del materiale di origine. La duttilità delle “stanze di scrittura”, che riuniscono l’insieme degli sceneggiatori, permette di rielaborare gli spunti per assoggettarli al progetto d’insieme di una stagione con uno scarto temporale spesso così ravvicinato alla messa in onda da risultare spesso, soprattutto per uno spettatore europeo, di sfacciata e sorprendente tempestività. Ed è proprio la necessità di alimentare la macchina produttiva, che costruisce freneticamente una serie episodio dopo episodio, a rendere famelica la serialità americana, pertanto attenta ad ogni opportunità offerta dall’attualità per depredarla ed adattarla ai propri schemi al fine di costruirvi un racconto concreto e organico all’insieme. Difficilmente la censura opererà intrusioni che non siano di natura moralistica (solo sesso esplicito e trivialità verbali sono banditi dalla tv generalista in chiaro), lasciando al libero mercato ogni critica sociale o politica, velata o manifesta, come responsabilità esclusiva del narratore e sua prerogativa espressiva. La cronaca e la politica sono pertanto l’alimento base della dieta narrativa della serialità, e spesso ne costituiscono l’ingrediente principale. Ma l’utilizzo dell’attualità varia a seconda delle esigenze, si pone in primo piano o sullo sfondo, diventa centrale oppure rimane ai margini del narrato per renderlo più denso.

In questo flusso di rimandi, in quanto sfondo o materia prima del racconto, trasfigurata nell’allegoria o sfruttata a solo pretesto o come componente pronto al riuso della fantasia all’interno della dinamica narrativa, la realtà, nelle varie declinazioni dell’attualità, diventa sostanza pregnante della serialità.

 

La circostanza

Le serie più moderne, abbracciando i personaggi e facendone il fulcro della narrazione, tendono ad una linearità sempre più continuativa e ad una serializzazione accentuata (i serial: il racconto si interrompe ma procede). La struttura episodica residua permane spesso per la volontà delle emittenti più generaliste e tradizionali, affezionate alla possibilità di una visione occasionale (le series: il racconto si interrompe e ricomincia). Questo spezzettamento della trama, che riparte simile con ogni episodio, impone di attingere a diversificate e cangianti fonti per trovare ed inventare nutrimento ad un andamento “procedurale” di ripetizione di una formula e di una struttura che ricomincia perennemente. L’attualità diventa allora una fonte preziosa di stimoli e di incipit, di differenti pretesti che vengono trasposti in svariati ambiti e declinati in vesti diverse, tutti similmente sviluppati nella interna coerenza degli episodi di una medesima serie. Ad esempio l’affaire DSK (maggio 2011) si è trovata subito tradotta in Law & Order: Special Victims Unit(2) (settembre 2011, ma con un politico italiano invece del francese, permettendo così allusioni ad altri libertinaggi) e, paradossalmente, anticipata (ottobre 2010) in The Good Wife (Cbs, dal 2009)[Fig. 1].

Questa serie, procedurale nei modi e serializzata nel fondo, segue il ritorno all’avvocatura della moglie di un politico fedifrago. Elegante e ironica, con un’attenzione alla regia rara sui network, The Good Wife rimane molto attenta al recupero di informazioni e al riuso delle tendenze reperibili nella cronaca (i bitcoin, Snowden o i social network per citare alcuni esempi) , debitamente riscritte e corrette per integrarsi nella casistica delle controversie dibattute in aula da Alicia Florrick. L’abile costruzione dell’ambiente, con due figli adolescenti, implicazioni morali e criminali sullo sfondo della politica con l’avvicendarsi di corruzione e redenzione, permette di attingere ai più svariati argomenti e di fornire materiale per costruire questioni intriganti e plot avvincenti, senza mai dimenticarsi di verificarne gli effetti nella continuità sui personaggi. Sottile pamphlet sulla libertà e sul potere, come sulle armi (sentimentali, legali, politiche) per mantenerlo o imporlo, la creazione dei coniugi King non fa che applicare la prassi naturale della sceneggiatura seriale, abituata a continui innesti razziati dalla cronaca, sebbene il risultato si stagli per qualità. Così le diverse C.S.I. (Cbs, dal 2000, ambientate, rispettivamente, a Las Vegas, Miami o New York) hanno ripetuto al loro interno mode e tendenze, comportamenti sociali e innovazioni tecnologiche per dare carburante alla macchina narrativa seriale di investigazione scientifica facendone sempre uno specchio soltanto leggermente deformato dell’attualità.

 

La conseguenza

Fino all’inizio del XXI secolo, il momento di massima crisi della coscienza americana era databile all’omicidio Kennedy, un evento storico comunemente considerato come il passaggio verso la perdita dell’innocenza, il raggelamento del sogno americano nella paranoia e nell’incertezza. Un simile trauma di passaggio si è verificato con la distruzione delle Torri Gemelle e il conseguente impegno (letto spesso come imperialismo) militare americano in Medioriente.

Anticipando quasi i fatti (è andata in onda a partire da novembre 2001), 24 (Fox, 2001-2010, ma ne è previsto il ritorno nel 2014) racconta, con una geniale sovrapposizione tra durata del giorno e della stagione seriale, le 24 ore infernali di Jack Bauer, un agente antiterroristico coinvolto nel contrasto di sempre più insidiosi attacchi al potere, raccontate in tempo reale nell’arco di 24 episodi. Tra complotti vicini al centro del governo federale e un protagonista, incarnato da Kiefer Sutherland, dilaniato dalle scelte cui è costretto per sventare i progetti terroristici, pronto a sacrificare vita e famiglia per il maggior bene dello Stato, la serie racconta il dolore crescente di un operativo che usa le sevizie per raggiungere la verità, spesso insopportabile, e scava un abisso nella propria anima sino a perdere ogni residua umanità e diventare un emarginato, civile e morale. Sempre vicino allo Studio Ovale, con presidenti che si dimostrano indomiti eroi e, più spesso, ignobili codardi, 24 incarna con efficacia la paranoia derivata dall’11 settembre, l’instabilità di ogni certezza e la volatilità dell’onore politico, la disperazione per la perdita di ogni valore di riferimento. Tacciata di fascismo occulto, la serie, ripiegandosi sull’involuzione psicologica del protagonista, rinchiuso in una sofferenza senza requie, smarrisce presto i connotati reazionari e racconta la tragedia di un uomo (e di un paese) che non si riconosce più e si fa cronaca di una tortura autoinflitta.

Di un analogo delirio persecutorio e della medesima conseguente sensazione di smarrimento di ogni appiglio di riferimento si fa degna erede Homeland (Showtime, dal 2011)[Fig. 2], rifacimento di una serie israeliana che narra il rientro a casa di un soldato americano rimasto prigioniero del nemico per otto anni di soprusi e di violenze. Ma alla Cia un’agente subodora una frode e teme il pericolo che minaccia le istituzioni nell’accogliere da eroe un eventuale traditore. La giovane agente, pur nel rispetto delle proprie intuizioni e della missione, non riesce a non innamorarsi, ricambiata, del sospetto reduce. Concentrata sui personaggi e sui rispettivi dissidi, Homeland (che riprende da 24 gli showrunner, i responsabili e coordinatori dello sviluppo) traduce in ossessione e tormento personale la paranoia diffusa, complicandola con l’incertezza psicologica dell’eroina (bipolare) e morale del protagonista (forse infedele reticente) e aggravandola con la corrisposta passione. Ogni confine si fa labile, prevale l’angoscia e il dubbio mina qualsiasi decisione, mentre sullo sfondo l’attualità continua ad alimentare il gioco incrociato dei rimandi contribuendo al clima di diffuso sospetto e di indeterminazione che il melodramma amoroso acuisce sino al parossismo.

Ma non è soltanto in ambito realistico che l’eco della realtà e dei suoi cascami psicologici si trasforma in materiale di scrittura drammaturgica. Nella fuga spaziale di Battlestar Galactica (Syfy, 2003-2010), con gli umani attaccati e quasi sconfitti da creature artificiali ribellatesi con devastanti successi bellici, non è difficile vedere una replica amplificata degli attentati e della devastazione delle Twin Towers, dilatati a genocidio planetario. Il terrorismo suicida diventa una forma di disperata risposta all’oppressione degli umani incarcerati in campi, e la guerra assume la forme di uno scontro di religioni tra il monoteismo delle macchine senzienti e il politeismo degli umani in ritirata. I Cyloni, robot evoluti in androidi diventati capaci di crearsi corpi di carne, hanno quasi sconfitto gli umani ma nella ricerca dello sterminio dei loro creatori sviluppano sentimenti e rispetto, nascono ibridi dall’incerto destino e i ruoli si confondono sino alla completa fusione delle due razze e dei loro discendenti comuni sulla Terra, antica patria infine ritrovata. Retorica e allegoria, filosofia e politica, Iraq e New York trovano corrispettivi in un ambito alieno e fantastico, senza mai perdere di vista una realtà che si maschera per essere ancora più visibile sullo stesso piccolo schermo in cui viaggiano le notizie, le quali si frammentano e si rimescolano all’invenzione conferendole inusitato spessore.


Il fulcro

Nelle serie di Aaron Sorkin l’attualità e la politica sono il centro stesso della narrazione. Nelle sette stagioni di The West Wing – Tutti gli uomini del presidente (Nbc, 1999-2006)[Fig. 3] Sorkin (creatore, sceneggiatore principale sino al 2003) mette in scena i due mandati di Josiah Bartlet, immaginario presidente democratico illuminato e generoso, nonché premio Nobel per l’economia, assieme alle problematiche vite del suo staff (i cui uffici sono situati nell’ala ovest della Casa Bianca). Se le vicende amorose dei personaggi hanno una certa importanza, sono però le vicissitudini lavorative a costituire il nucleo fondante della narrazione, con i problemi etici e morali della gestione del Paese, i continui dissidi con l’opposizione, gli inevitabili opportunismi politici, i ricatti e i compromessi necessari alla gestione del potere, le responsabilità di inevitabile guida dell’Occidente, le implicazioni della moral suasion. Sorkin ha voluto incarnare in Bartlet un’utopia di governo intimamente democratico - soprattutto quando, dal 2001, è diventato il contraltare fittizio del vero Presidente repubblicano Bush - ma non ha mai costruito una futile agiografia del possibile sporcando l’idealismo con la quotidianità della politica effettiva, risultando avvincente e colto, comprensibile e astratto, sfaccettando personaggi sempre credibili e situazioni coinvolgenti. Ed ha anche voluto scrivere e mandare in onda a ridosso dell’11 settembre 2001 un episodio speciale (Isaac and Ishmael, trasmesso il 3 ottobre 2001) strettamente legato alla tragedia delle Torri Gemelle di cui ripete l’eco senza mostrarla, accennandovi con pudore in forma quasi di metafora.

Tutta la produzione di Sorkin guarda ai retroscena dello spettacolo, sia esso politico che giornalistico, avendo anche ritratto la preparazione di uno show comico in tv (Studio 60 on Sunset Strip, Nbc 2006-2007) e raccontato le redazioni di giornali televisivi, sportivi in Sport Night (Abc, 1998-2000) e d’attualità politica in The Newsroom (Hbo, 2012-2014). In quest’ultima serie Sorkin si permette un excursus su alcuni eventi preminenti della cronaca per rileggerli dal punto di vista di un repubblicano dignitoso, un cowboy del notiziario che si schiera apertamente contro il partito per cui voterebbe se esso fosse all’altezza delle sue aspettative. Ironica e molto dialogata, The Newsroom racconta le bassezze politiche della destra più arcigna e retriva (il Tea-Party, i cui membri vengono definiti «talebani americani») assieme alle aspettative economiche dei magnati televisivi, la riconquistata inossidabile certezza della moralità del mestiere del giornalista sullo sfondo di vicende personali, amorose e professionali, dei protagonisti. Se la società (americana, in questo caso) è una “società dello spettacolo”, Sorkin la descrive riflessa in molte delle sue espressioni di massa, dalla politica all’intrattenimento, dalla finanza alla religione. I mezzi di comunicazione si fanno veicolo di un messaggio e, poiché la forma è il contenuto e il mezzo il messaggio, ne diventa l’incarnazione. L’autore cerca instancabilmente, da indefesso e imperterrito moralista, una deontologia implacabile della forma di comunicazione di massa che guidi il comportamento dei pochi (amministratori, politici, giornalisti) nel rivolgersi ai tanti (spettatori, votanti, cittadini) per mutare il pericolo del semplice e quasi automatico condizionamento in trasmissione, consapevole e responsabilizzante, di concetti, in un dialogo non cristallizzato nella ripetizione dell’assunto.

Anche Boss (Starz, 2011-2012) si svolge in ambito eminentemente politico poiché osserva gli intrighi e i giochi di potere orbitanti attorno alla carica di primo cittadino di Chicago, antica capitale della malavita americana e luogo emblematico di tutti i compromessi della coscienza. Il sindaco Tom Kane vede minato il proprio dominio predatorio non soltanto dalle imminenti elezioni del Governatore e dall’emergere di passate immoralità ma, soprattutto, dalla diagnosi di una implacabile malattia neurodegenerativa i cui primi sintomi allucinatori si vanno manifestando con crescente insistenza. In lotta col proprio corpo fisico e con quello elettorale, lo spietato sindaco calpesta doveri e diritti per perpetuare la propria egemonia, indifferente all’imminente declino e rabbiosamente attaccato ad un precario status-quo da difendere con ogni sotterfugio. Emblema dell’egotismo, Kane non riesce a non sacrificare la famiglia ai propri interessi, sradica qualsiasi pulsione empatica, cancella ogni accenno di solidarietà per proiettarsi nel consolidamento del proprio governo e nascondere a sé e agli altri l’avvicinamento della fine, della riduzione all’impotenza afasica di un comune cittadino e di un malato cronico. Tragedia shakespeariana di ambientazione contemporanea, Boss tratteggia sconce trame del potere decisionale, tra discariche occultate, appalti pilotati, nemici soppressi, ricatti attivati e figli umiliati per manifestare una patina di inossidabile moralità; ma l’ambito politico finisce quasi col risultare un pretesto per amplificare la patologia del protagonista, confonde destino di governo e degenerazione fisica per descrivere la perdita di sé nella perdita del potere, l’abbandono del controllo di un corpo sempre più privo di umanità e ridotto a puro istinto di conservazione.

 

Il pretesto

Scandal (Abc, dal 2012) [Fig. 4], creata da Shonda Rhimes, sfrutta l’eco di The West Wing riciclandone ambientazione e tema (la gestione dello studio ovale), ne recupera uno dei protagonisti (Joshua Malina) in un ruolo di supporto a sottolinearne la continuità ideale ma ne trasforma radicalmente l’assunto. Così come in Grey’s Anatomy (Abc, dal 2005) il nosocomio è un fondale utile ad ingrandire i drammi romantici dei personaggi e valido supporto per la costruzione di vicende mediche esasperate, allo stesso modo la Casa Bianca diventa il pretesto per narrate le vicissitudini personali di Olivia Pope, spin-doctor della campagna del presidente Grant da cui si è dovuta allontanare per la reciproca passione che avrebbe fatto deflagrare l’Amministrazione e creato inammissibile scandalo nei puritani Stati Uniti. Pur essendo dichiaratamente democratica e impegnata a fianco di Obama per l’eliminazione della discriminazione razziale, la Rhimes decide di mettere in scena la vittoria di un presidente repubblicano (sebbene non simpatizzante del Tea-Party) con una scelta opposta a quella di Sorkin. Il presidente Grant non incarna l’ideale capo di stato e di governo bensì un ideale romantico per l’avvocato Pope, umanamente debole e manovrabile, dignitoso eppure infantile e capriccioso, vittima delle proprie pulsioni e inguaribilmente sentimentale. Delle dinamiche della politica domestica ed estera poco si cura la serie, se non con vaghi e fittizi riferimenti, così come della verità della diplomazia e del compromesso, materiale drammaturgicamente poco dinamico, per concentrarsi sui complotti e gli artifici che della reale ragion di stato hanno solo il sentore ma si prestano benissimo ad un incastro di esacerbate trame melodrammatiche e di dissidi morali. L’ambito repubblicano autorizza allora il ricorso ad ogni nefandezza, mentre i modelli dei Bush o di Nixon servono da stimolo a elucubrazioni di sceneggiatura che stimolano l’inverosimile sino al paradosso mentre l’intera sottotrama diventa un intreccio di contrastati amori, di felicità impossibile, spesso osservata in televisione tra sospiri e languori, e affogata in bicchieri di vino. Pur muovendosi nei medesimi luoghi e guardando a personaggi politicamente equivalenti, consiglieri politici e presidenti, lobbysti e funzionari, Scandal parassita l’aura di The West Wing ma ne diventa l’antitesi e rischia la parodia, esattamente come Grey’s Anatomy ripeteva i luoghi e i temi di E.R. – Medici in prima linea (Nbc, 1994-2009), tralasciandone però il realismo, evitando lo sguardo polemico e documentario per fare emergere la sola costruzione di una finzione soap, efficace quanto improbabile, tralasciando il contesto per farne il pretesto di un mero divertissement amoroso.

Solo sull’isola senza nome dell’utopia di Lost (Abc, 2004-2010) [Fig. 5] possono circolare, incontrarsi e scontrarsi John Locke e Rousseau, Michail Bakunin assieme a Ford, Jeremy Bentham con Richard Alpert, Desmond Hume affianca Edmund Burke. Sopravvissuti allo schianto del volo Oceanic 815, i passeggeri rimasti si devono organizzare e trovare una modalità di convivenza, sono costretti a darsi delle regole di convivenza per non rischiare la dissoluzione nel caos e l’isola diventa il terreno per una fertile rappresentazione della vita sociale tra il disordine di “signori delle mosche” e la dittatura del più forte. Ma strane manifestazioni, pericolose e indecifrabili, li obbligano presto a considerare l’opzione della pura fede nel mistero a scapito della lucidità della ragione, a seguire la religione invece della scienza e a dibatterne. La contemporanea compresenza delle incarnazioni di pensieri e di filosofie, di scienziati e di politici rende l’isola un luogo dell’immaginazione. Eppure Lost non stagna mai nell’astrattezza della disputa morale, ogni riferimento diventa un gioco con lo spettatore, guidato dagli sceneggiatori nei meandri più improbabili di una narrazione che vira verso la magia e il mito, si fa illusione e altera il continuum temporale pur rimanendo ancorata alla fisicità di volti e di corpi, di passioni e di dolori. Lost è un esperimento analogo a quello svolto nella finzione della fondazione Dharma, che non si svela del tutto e impone la segretezza delle intenzioni: è una pura macchina di affabulazione che trasforma ogni suo elemento a pretesto e, al contempo, trascina ogni cosa con sé. Lost è tragedia dei sopravvissuti e dramma della civiltà, ed anche scontro politico e filosofico, viaggio allucinatorio e fantastico nel tempo e nello spazio, lotta tra incantesimo e scienza, guerra di religione con tanto di rimando all’Iraq e all’esportazione della democrazia: ma tutto diventa efficace materiale di racconto, presupposto per un narratore onnisciente che non si disvela né manifesta le proprie intenzioni. Ogni tema diventa un personaggio, ogni elemento si trasforma in dramma, la teoria in dinamiche interpersonali e drammaturgia, ed il senso della serie si palesa proprio nella sua divertita, complessiva indecifrabilità. Se gli spettatori sono stati in gran parte delusi dal finale criptico e misticheggiante, questo ha soltanto portato all’estremo il senso intimo della serie, la possibilità di esercitare il potere assoluto della narrazione, senza tema di disaffezione.

L'allegoria

Lost è nota come serie creata (in collaborazione e su materiale antecedente) e prodotta, nonché diretta - per l’episodio pilota - e in parte scritta - alcune delle puntate iniziali - da J.J. Abrams. Molta della produzione seriale del regista dei nuovi Star Trek (e dei prossimi Star Wars) non sembra aliena dal ricorrere il tema del potere e la tentazione dell’onnipotenza. Se Lost se ne fa allegoria traducendolo in affabulazione, le serie successive declinano le problematiche del potere in svariate forme sfruttando differenti suggestioni, con la prevalenza della fantascienza che, spaziando nella libertà di creazione futuribile o distopica, permette licenze altrimenti stridenti.

In Fringe (Fox, 2008-2013), co-creata da Abrams stesso, una speciale sezione dell’Fbi indaga su fenomeni apparentemente inspiegabili e al limite della scienza nota. I presupposti alla X-Files si vanno via via smussando verso la scoperta di universi paralleli confluenti e in conflitto per deflagrare infine nella cronaca della prossima invasione di terrestri evoluti, gli Osservatori, in fuga da un mondo devastato dalla loro stessa predazione e alla ricerca, nel tempo, di altri periodi da assimilare e corrompere. Nell’ultima stagione, dopo una preparazione lunga e articolata, gli Osservatori hanno occupato il mondo e stabilito un regime totalitario orwelliano in cui il controllo delle coscienze non è soltanto metafora letteraria ma facoltà paranormale. Gli Osservatori si muovono vestiti in completi scuri come burocrati degli Anni 60 dalla spietatezza nazista, costituiscono un governo kafkiano e oppressivo dedito ad esperimenti sugli umani, costretti infatti ad organizzarsi in cellule di resistenza dalla metodologia terroristica.

Jonathan Nolan, fratello del regista degli ultimi Batman, aveva ipotizzato nel secondo capitolo cinematografico dell’uomo pipistrello una macchina per lo spionaggio globale, capace di intercettate ogni comunicazione audiovisiva, un “Über-Echelon” segreto e inquietante. Nolan sfrutta questa intuizione per creare una serie, prodotta da Abrams, Person Of Interest (Cbs, dal 2011)[Fig. 6], in cui il protagonista progetta e costruisce una Macchina analoga dopo le Torri Gemelle, per evitare tragedie analoghe. Oltre alla sua valenza anti-terroristica, la Macchina intercetta dati sensibili che segnalano persone di nessun interesse strategico ma in imminente pericolo, e l’hacker di mezza età si cimenta nel tentativo di salvarle, avvalendosi di collaboratori tra i reietti dello spionaggio e delle forze dell’ordine. Deus ex-machina letterale, il computer si fa narratore e, alla stregua dei demiurghi onniscienti di Lost, guida e condiziona con crescente consapevolezza l’azione dei protagonisti con spazi sempre più sconcertanti di libero arbitrio in una serie che, a poco a poco, sviluppa una trama orizzontale che si interroga sull’intelligenza artificiale, sulla sua potenza e indipendenza nella capacità di estrapolare deduzioni dalle informazioni. Ma la Macchina, al di là di una giustificazione securitaria di facciata, è un potente mezzo di difesa degli interessi sempre più privati dei gestori dell’apparato, mentre nella realtà extra-diegetica Snowden rivela l’esistenza di piani e di strumenti di sorveglianza generale e generica da parte degli Usa.

Revolution (Nbc, dal 2012), prodotta da Abrams su idea di Eric Kripke, già creatore di Supernatural, è invece un western post-apocalittico di modesta fattura in cui la società è ridotta allo stato preindustriale a causa di un black-out globale che ha portato alla perdita dell’elettricità. Alla regressione tecnologica si affianca quella politica e sociale, con il caso a dominare esistenze prima privilegiate e l’instaurazione di regimi privi di democrazia. Sulla falsariga della ribellione che aveva portato alla costituzione degli Stati Uniti, Revolution si affanna di trasformare un road-movie di avventuroso ricongiungimento familiare in ragionamento sul potere, sui pericoli di una deriva totalitaria scaturita dalle macerie della repubblica presidenziale. Vagamente anarcoide e sospettosa verso ogni forma di governo e con una patina vagamente redneck, Revolution introduce successivamente i Patrioti, eredi formali del governo federale intenti a ricostruire gli Stati Uniti, rinnovati e con metodologie nazistoidi di selezione e di condizionamento.

Nell’arco delle sue cinque stagioni The Wire (Hbo, 2002-2008)[Fig. 7], sulla falsariga di un’indagine della polizia sul narcotraffico a Baltimora, diventa un ritratto polifonico di un’America che ha rinunciato al suo sogno di progresso e di solidarietà. Tra la manodopera degli spacciatori di strada, la spietatezza dei capi occulti, il lavorio politico dei riciclatori, The Wire offre diversi punti di vista (poliziesco e criminale, sindacale, mafioso, civile e istituzionale, scolastico, giornalistico) di una medesima storia che, da circoscritta, diventa collettiva e si erge ad emblema di una nazione che si è persa per la strada verso la giustizia diffusa e collettiva, si trasforma nella descrizione del capitalismo al lavoro la cui unica finalità è il guadagno e la cinica conquista della rispettabilità. Nata dall’adattamento di inchieste giornalistiche, la serie si avvale della collaborazione di autori di noir e, tra paladini delle forze dell’ordine e antieroi, criminali anarchici e faide mafiose immerse in caos e morte, mantiene la speranza della consapevolezza, di un cambiamento che la conoscenza possa indurre, facendosi essa stessa, alla stregua del materiale cronachistico di partenza, fonte di informazione, abbellita dal coinvolgimento indotto dalla narrazione.

La contaminazione è una delle prerogative della cultura americana, la quale attinge sempre senza preconcetti da disparate fonti al solo fine di una loro rielaborazione e di un corretto inserimento in un discorso che, a posteriori, si fa personale. Il mondo rappresenta materiale disponibile e, riletto in forma di racconto, diventa affabulazione e acquista comprensibilità. Ma se la fabula ingabbia l’attualità nelle strette maglie delle sue strutture, nella ripetitività degli schemi e nella necessaria leggibilità delle intenzioni dei personaggi, realtà e rappresentazione diventano una corrente costante, un andirivieni incessante di contributi e di riletture, si alimentano a vicenda e si integrano di continuo senza filtri o remore perché la politica si fa spettacolo con le stesse regole, simili modalità e equivalenti ragioni con cui lo spettacolo attinge alla politica, il giornalismo si traduce in racconto e l’attualità si drammatizza. Analogamente, la politica è costretta a narrarsi per conquistare ascolto, a vendersi come costrutto per diventare intellegibile. Allora, come in Lost, tutto è narrazione e tale la realtà e la politica diventano quando intrecciate nelle agili e intricate trame della fiction televisiva, la serialità.

 

 

1) Serial Writers, a cura di F. Guarnaccia, «Link – Idee per la televisione», n° 15, novembre 2013, p. 59.

2) Delle serie citate si indicano tra parentesi emittente e anni di messa in onda. Se ancora in palinsesto, si cita l’anno di esordio. Law & Order: Special Victims Unit (Nbc, dal 1999).

In questo numero